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Il cambio di stagione

Il cambio di stagione

Il cambio di stagione

Allegoria della stagione di una vita dalla quale riemergere e mutare.

Tecnica: olio su legno.


Specifiche
Sorgente luminosa - Es.: Monocromatico, Bicromatico Monocromatico
Genere - Es.: Fantasy, Natura morta, Religioso, Paesaggistico Erotico
Soggetto raffigurato - Es.: Cavalli, Frutta, Gatti Automobile e persone
Tecnica - Es.: Olio su tela, Matita su carta Olio su tavola
Stile dell'opera - Es.: Surrealismo, Cubismo, Astrattismo Neoespressionismo
Dati artista
Esperienza artista - Es.: Emergente, Esperto Esperto
  • Certificazione di autenticità
  • Opera numerata
  • Firma dell’Artista
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Valerio
Valerio de Filippis
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Valerio de Filippis,

Pozzuoli (NA), 5 marzo 1960, inizia la sua ricerca artistica, nel campo della pittura, nel 1980 a Bari, poco prima prima del conseguimento della maturità scientifica (1982). Compie numerosi viaggi all'estero stabilendosi nel 1992 per due anni a Bruxelles. Dal 1994 vive e lavora a Roma dove nel 2003 fonda lo Studio E.M.P. (Experimental Meeting Point) studio d'arte, luogo di interscambio espositivo e confronto culturale e tecnico tra artisti di qualsiasi linguaggio. Vincitore di numerosi premi, è stato invitato a diverse rassegne, anche internazionali. Del suo lavoro si sono interessati in più occasioni la Stampa e la Radiotelevisione italiana. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private. Attivo dal 1980 nel campo dell'iperrealismo, negli anni Novanta vive la prima fase di distacco dal realismo figurativo verso esperienze tendenti all'astrattismo. Dal 2003 conduce una ricerca pittorica sperimentale attraverso l'uso di colori e materiali non tradizionali. Soggetto delle sue opere è il corpo umano, prevalentemente maschile, ad eccezione del ciclo sulla mitologia delle Sirene. Nel 2001-02 si è avvicinato alla pittura neoespressionista conducendo una ricerca su tematiche legate ai comportamenti umani aberranti, generando, in occasione di una mostra ad Orvieto, controversie che sconfinavano in un'interrogazione parlamentare (dettagli nella sezione Rassegna Stampa). Negli anni 2004-'06 ha lavorato ad opere a tecnica mista tra pittura e computer art, con il ciclo denominato "Frammenti". Nel 2007 realizza la sua prima installazione, un video e alcune opere concettuali. Nel 2010 è autore di alcune performances, due delle quali estreme. Dal 2013 comincia a sperimentare la videoart, il montaggio video e la composizione musicale, quest'ultima avvalendosi sia di software per elaborazione di Musica Concreta, sia studiando pianoforte e chitarra. Nel 2015, dopo aver musicato con voce alcune liriche di William Blake, realizza "Musica per Riccardo III", con testi originali di William Shakespeare. Da qui prenderà il via la realizzazione di un lungometraggio, "The Mirror and the Rascal" di recente concluso ed attualmente in concorso in alcuni Cinefestival, che si caratterizza per talune trovate surreali e sperimentali, e per la contaminazione fra teatro, cinema e videoart. 

born in Pozzuoli (Naples, Italy) on March 5 1960, began his pictorial research in Bari in 1980. Throughout his career he traveled extensively abroad, staying in Brussels for two years. He’s been living and working in Rome since 1994, where in 2003 he funded the E.M.P. Studio (Experimental meeting Point): art studio, exhibition space and a place for artists of different backgrounds to inspire and challenge one another. De Filippis has won numerous awards and has been invited to many international festivals. His works are housed in many public and private collections. De Filippis’s been active in the Hyperrealism camp since 1980 and during the 90s for the first time he cut himself off from figurative realism to pursue experiences leaning toward abstractism. Since 2003 he’s been conducting a pictorial research through the use of non-traditional colors and materials. Human body, mostly male, is the subject of his work, though he also produced a cycle on Sirens’ mythology. In 2001-02 he approached neo-expressionist painting by conducting a research on issues related to aberrant human behavior, generating, during an exhibition in Orvieto, disputes that bordered in a parliamentary question (details in the Press Review section). Between 2004 and 2006 de Filippis produced mixed media works (digital art combined with painting) with the cycle called “Scraps”. In 2007 he created an installation, a video and several conceptual works. In 2010 he is the author of some performances, two of which extreme. Since 2013 he’s been experimenting with video art, editing and musical composition, the latter using both software for the elaboration of Concrete Music, and studying piano and guitar. In 2015, after having played with voice some lyrics by William Blake, he made "Music for Richard III", with original texts by William Shakespeare. From here will start the production of a feature film, "The Mirror and the Rascal" recently concluded and currently in competition in some Cinema festival, which is characterized by certain surreal and experimental findings, and for the contamination between theater, cinema and video art.


Il futuro in(finito)

    di Enzo Di Gioia

 

Il racconto pittorico di de Filippis è un incessante combinarsi, scomporsi e ricomporsi del continuo incastro della memoria, tradotto sulla tela dalle sicure esperienze artistiche maturate accademicamente.

Il privilegiare un linguaggio storicizzato dell’arte (il surreale), come medium visivo che pratica una cultura dell’espansione, dell’indagine al di sotto dell’apparente, non è un fatto voluto da una scelta immotivata o scaturita dalle certezze tecniche che indubbiamente l’autore possiede, ma, bensì, da una chiara posizione assunta di fronte al suo racconto artistico che, non si esaurisce come si evince, nella pratica del già conosciuto, consumato o del tutto giocato sul controllo della ragione, valenze che rischiano di rendere trinco o stagnante il percorso progettuale di comunicare il privato.

L’artista, concettualmente, ripercorre itinerari lontani e dimenticati, rivaluta gli eterni ritorni e affida il presente ad un linguaggio che predilige appunto allargare e aggregare nuovi sensi e percorsi in continua dinamica che irrompono spesso dal di fuori della volontà progettante proprio per trasformarsi in significati che non si stabilizzano ed esauriscono mai. Mette il linguaggio in condizione di produrre un nuovo senso, dischiudendosi a liberi meccanismi; (componente tipica del surreale) che fa entrare nel gioco creativo fattori di imprevedibilità, guidato dalla natura dell’inconscio, che espande e dilata l’intenzionalità dell’opera fino a stordire l’ornato caricandolo di potenzialità e valori diversi.

de Filippis crea la sua “arte” eliminando il peso della materia, gioca con colori aciduli, tirati fino a perdere la loro corposità cromatica, gonfi di significati, putrefacente e toccante di una tavolozza di toni bassi, freddi, metallici, capaci di originare luoghi dove si incrocia la luce e la tenebra, il movimento e la stasi, la presenza e l’assenza, il soggetto e il suo sostituto, l’attimo e l’eternità.

Così, raccontando, lo sguardo si annida in schemi figurativi che a loro volta sono il tessuto e il suggerimento di una storia, un momento privilegiato di “quella storia” più ampia, più complessa, più intima e personale. Pittura che è narrazione, sogni, speranza, lunga catena di accaduti, di elementi che si susseguono, che altro non è che il desiderio di una (non) fine.

Questa è la tensione che irrompe nel narrare; immagini riconoscibili, simbologie sociali identificabili in storia, una conoscenza metaforica della “morte”, nel dispiegare le cose una-accanto-all’altra, come il susseguirsi di un “quotidiano” complesso…inflessibile.

Un’arte che riconosce storie, che vive in un presente che indaga il passato e si proietta nell’inevitabilità del futuro.

 

 

 

Enzo di Gioia

                                                                                                                                        Bari, dicembre 1982

 

 

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 La Memoria dei nostri tempi

    di Gian Mario Olivieri

 

Fare pittura, di solito, vuol dire bloccare la realtà che ci circonda con le immagini che vanno concretizzandosi sulla bidimensionalità della tela, toccando però, talvolta, la verità dell’esistenza nel semplice documento della vita quotidiana.

La storia dunque di una ricerca partecipe, appassionata, condotta sul filo di una filosofia dell’esistenza che si collega col sostanziale idealismo e formalismo di esperienze regionali che muovono da una precisa reazione al contrasto fra realisti e neosurrealisti che contrappone da noi, sin dagli anni Cinquanta, crociani e marxisti, venturiani e zdanoviani.

In ogni caso la vocazione alla figura, alla rappresentazione, alla ”forma” resta sempre imperante negli elaborati d’arte di Valerio de Filippis in cui, la visione un po' geometrica delle immagini significa studio della comunicazione visiva, visualizzazione del mondo organico, scoperta d’aggregazione delle forme, percezione di sensazioni. Il discorso è sulla materia e il suo spessore che si fa sempre più sottile, e sul rapporto fra ombra e colore che appare svilupparsi proprio nell’ultimo dipinto “Amore ai margini di un’autostrada”. Chiaro è l’interesse del de Filippis per la Nuova Figurazione e i suoi tagli di sapore fotografico, si dovrà dunque pensare ai rapporti di de Filippis con le avanguardie storiche del Futurismo non solo per i tagli ma anche per l’uso della luce e l’analisi di questa unitamente alla squisita eleganza formale dei toni e della composizione delle stesse immagini.

Il valore ne risulta uguale. Materia, movimento, bisogno, desiderio sono inseparabili.

L’onore di vivere val bene la pena che ci si sforzi di vivificare. “Fiore, frutto, presenza metallica e midollo dell’albero, dal momento che portano i tuoi colori, sono uno dei segni della tua presenza. Non ti sarà negato di credere che tutto è trasmutabile in tutto, se non a partire dal momento in cui lo fisserai in idea”.

Un’interpretazione veramente materialistica del mondo non può escludere dal mondo colui che lo constata. Perfino la morte lo riguarda, perché il mondo è vivo, se lui vive.

Non so se mai giovane artista sia stato più cosciente di queste fondamentali verità, essa è la prima ragione per vedere e ammirare in questo pittore l’alta sensibilità e la poetica d’arte che lo distingue. Attraverso i suoi quadri, esercita incessantemente la volontà di aggregare forme, eventi, colori, sensazioni, il futile ed il grave, il fuggevole e lo stabile, l’antico e il nuovo, la contemplazione e l’azione, gli uomini e gli oggetti, il tempo e la sua durata, l’elemento ed il tutto, notti, sogni e luce. de Filippis si è manifestato, si è identificato in ciò che ci mostra. Spingendo il suo sguardo al di là di quella realtà insensibile alla quale si vorrebbe che ci rassegnassimo, ci fa entrare senza sforzo in un mondo in cui acconsentiamo a tutto, in cui nulla è incomprensibile.

 

 

 

 

Gian Mario Olivieri

                                                                                                                                Bari, giugno 1983

 

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Sperimentali ritrovi

 

    di Fortunato Bruno

 

 

 Il percorso ipnotico-teocratico dell'arte dell'artista Valerio de Filippis va diramando la scelta del suo ingegno in tre diverse formule endocrine e antropomorfologiche: l'espansione del sentimento (potremmo raffigurarci un cuore mimato in progress), il sogno di un risveglio iper-realistico ed una Weltanshauung della donna come padrona del linguaggio incessante e premuroso della sua arte.

Ogni artista produce numerose verità nel colore: de Filippis tenta con impareggiabile cura e ritmica melodia del suo tempo la giovane apparizione nel panorama definito dell'arte contemporanea mediante un non voluto linguaggio retorico, ma anzi teocratico, aperto alla prospettiva del musicale e dell'espansione come nei suoi colori, come nei suoi disegni a china o ad olio e nella disarmonia di un amore infecondo o da tratteggiare fuori dal tempo (del quadro, s'intende), riuscendo sempre a convincere gli attenti fruitori a dei rebus naturali di risposte senza fine.

Sarà il pregio dell'arte che muta di generazione in generazione, oppure è una volubilità esposta a dovere per imprimere un discorso serio sull'avanguardia che produce del sogno una sola infinitesimale parte rem che a noi sfugge nella realtà come nell'immaginario.

De Filippis coniuga a grandi ondate di pieni e vuoti - a volte troppo asimmetrici e occasionabili - le proprie speranze di un sogno "ad occhi aperti" come il giovane e sapienziale Freud praticava, dunque spinge ad una fallibilità dell' assurdo o del vero qualsiasi spettatore che sappia vivere in primo luogo il quadro da ogni prospettiva terrena.

Siamo vicini ad ipotesi Beckettiane o a filosofie post-strutturaliste?

La scelta, sembra dire o punteggiare la tela, della memoria della storia dell'arte e di ciò che ne verrà se, in un mondo dove i sentimenti annullano lo spazio di noi, il recupero resta soltanto la pagina di un colore o di un'opera possibile.

La naturalezza della descritta variabilità teorica della natura sfebbra sempre in un amore disarticolato ma — amoroso romanticissimo preludio wagneriano — o di surroundings avanguardisti azzardando anche sperimentali ritrovi, forse di un aeroporto.

 

Fortunato Bruno

Roma, 2001

 

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La quiete del Terrifico

   di Santa Fizzarotti

 

                                                                                                              Si tratta di una voce che,
stranamente, non trasmette
che delle proibizioni divine.

Jean-Joel Duhot

                                                                                                                  

Impregnata di ombra appare la pittura di Valerio de Filippis, dalle evocazioni surrealiste, intrise dei simboli eterni dell’umanità. Il corpo appare all’improvviso alla ribalta di luci inquietanti e fosche che si nutrono delle tenebre eterne del dolore più oscuro e profondo dell’essere umano.
Dalla Natura luminosa delle cose al racconto ermetico di un sguardo inquieto. Anche Socrate ha spesso affermato che “accadeva qualcosa di divino e di demonico”(1). In ogni caso de Filippis non passa all’atto come in qualche performance contemporanea accade. E’ sufficiente ricordare l’opera degli Azionisti Viennesi che hanno riproposto in forma drammatica il “corpo”. Herman Nitsch, per esempio, copriva di viscere di animali i ragazzi nudi distesi per terra. In definitiva, anche se in forma cruenta, Nitsch ha invitato ad un nuovo modo di “ripensare” il rapporto con la Natura divenuto eccessivamente violento e forse per alcuni aspetti perverso. La Scuola di Vienna con Nitsch, Rainer, Brus, Rot, Schzarzkogler si è sempre presentata come shock in modo che il presente riuscisse a permettere una riflessione sulla storia umana e le sue radici. Questi artisti hanno utilizzato il corpo come Oggetto e non già come Soggetto di Storia mentre de Filippis si avvale della chiarezza espositiva, della lucidità degli eccessi, della visione di incubi notturni senza per questo andare l’oltre del corpo, utilizzando la figura corporea per il modellamento di un Altro, dell’Alterità dentro di noi.
Nelle sue opere drammaticamente egli manifesta tutto ciò che di inedito si nasconde della natura umana come parte integrante della stessa. In tal senso all’improvviso sulle tele dilaga l’angoscia, e la coscienza si ritrova ad essere quella punta estrema di un universo nascosto che racchiude tutte le memorie del mondo. I toni sono cupi, le variazioni brune si mescolano a quelle nere e azzurre: si tratta degli aspetti abissali della catastrofe della modernità. L’impresa ardua dell’artista è in questo caso quella di far vedere le forme sommerse dell’essere umano che la Ragione tenta di addomesticare: siamo spesso attratti dalle soluzioni perverse e dall’orrore. Si tratta del sublime che turba e commuove. Ma forse in verità è come se proiettando sugli altri tutto il male del mondo noi ne fossimo esclusi. La nostra ferita narcisistica viene così apparentemente lenita: ma la visione di tale realtà senza separazione dalla stessa e successiva elaborazione non facilita la costruzione dello

spazio della coscienza.

Ed è così che l’Io appare drammaticamente dilaniato tra due indomiti guerrieri: l’Es e il Super Io. D’altra parte Chasseguet-Smirgel scrive che “Ferenzci afferma che il desiderio fondamentale dell’umanità è quello di ritornare nel grembo materno”, lì dove “la frattura tra l’Io e l’ambiente non ha ancora avuto luogo”(2). Una conoscenza fatta di istinto, intrisa di quelle pulsioni che abitano l’essere umano.

Valerio de Filippis non ha remore nel far ascoltare le urla del Silenzio di quei luoghi che tutti neghiamo, ma che fatalmente governano la nostra vita, i nostri rapporti con il mondo, la nostra intimità. Gli incubi popolano i suoi sogni e le sue veglie diurne: il paesaggio assume un’atmosfera metafisica e si trasforma in un luogo sconfinato dove lo sguardo si fa tattilità mentre percorre lo spazio morbido della Memoria. Di qui la costruzione di lontane architetture in cui la Natura è Mente. In tale ottica tutta la sua narrazione pittorica assume il senso della plasticità e recupera la vibrazione

propria della pittura ad olio.

Nel lavoro di questo artista il corpo-natura appare come l’oggetto elettivo della mente. Tutto ciò vuol dire che “ la mente, ovvero il ‘Bino’, deriva direttamente dal corpo, l’ ‘Uno’, e che la sua funzione primaria è quella di contenere ed organizzare la spinta sensoriale che ivi origina”, come scrive Riccardo Lombardi(3). In realtà è l’organizzazione dei sensi che fa sì che il corpo percepisca, si muova nello spazio e nel tempo, conosca, immagini e pensi. La disorganizzazione sensoriale conduce il corpo alla frantumazione. Così come l’eccessiva ricerca del piacere nella violenza come unica forma di godimento porta alla negazione del corpo: vale a dire ad un oscuramento, una sorta di “eclissi del corpo”, di tutte quelle condizioni mentali che sollecitate dalla emozione generano i processi cognitivi, nuovi modelli di identificazione e nuovi linguaggi. Il rapporto dell’Io con l’oggetto d’amore primario (la madre) affiora in tutta la sua nascosta pregnanza che ormai dilaga nelle esperienze della contemporaneità: la rappresentazione del corpo sulla scena dell’arte diventa terrifica e sublime. La quiete del terrifico e di tutto ciò che si inscrive oltre il dolore deborda dalle tele di de Filippis. Si stabilisce così una difficile condizione di con-tatto tra sé e l’Altro: una sottile attrazione verso la follia travolge lo sguardo dello spettatore mentre la relazione corpo-mente lascia emergere una terza area che ha a che fare con quella terra del divieto che si indica con il nome di Inconscio. Ed è così che centrale diviene quell’ “Oggetto Originario Concreto” teorizzato da A. B. Ferrari che non è soltanto il corpo, ma, secondo la mia esperienza, è il corpo Altro (la Madre) confuso con il nostro stesso corpo.

Ed è su tale inquietante arcaica relazione che si fondano i processi di pensiero individuali. Ed è appunto tale sensazione originaria che si porrà sempre quale elemento di “congiunzione tra l’emozione e il pensiero, tra Inconscio strutturale e Coscienza, ma soprattutto punto di incontro tra

corpo e mente”(4).

In verità oggi forse solo l’Arte può esplorare quei nuclei psichici profondi che con veemenza affiorano nella realtà nel tentativo di avviare processi di comprensione, interpretazione ed elaborazione degli stessi. Ancora una volta l’arte può assolvere alla sua funzione “ salvifica” e rigenerante della storia dell’umanità.

Nell’opera La fandonia dell’oracolo (1980) la composizione è ironica nella sua solennità: la terra appare spaccata da un antico sisma, gli alberi sono il ricordo di tutto ciò che è stato, non esiste futuro che non sia già avvenuto. Così come in un lavoro del 1989 dal titolo Amore ai margini di un’autostrada si avverte la presenza della natura ambigua dell’identità. Il silenzio deborda in Ne parliamo del 1998: due figure ai margini della tela non guardano da nessuna parte così come appaiono perse nel labirinto di un linguaggio sconosciuto che racconta l’inenarrabile. Le opere di de Filippis sono attraversate dal senso della nullità dell’essere, dall’angoscia della morte e del vuoto: ne La bestia (1999) e nella Serie dei sette peccati capitali: Vanità (2001) l’artista lascia intravedere l’essenza stessa della palude mortifera di Narciso, del male, del piacere estremo della violenza che equivale alla sottomissione dell’Altro, alla spersonalizzazione dell’essere umano, all’annullamento di qualsiasi forma di linguaggio che non sia quella della prevaricazione, della tirannia, di Thanatos. Di qui il livore dei volti, la plasticità della figure e dei corpi, il sarcasmo e il dolore che affiorano dagli sguardi dei vincitori e dei vinti. Il Maschile e il Femminile non sono soltanto fra loro contrapposti, ma l’uno ostile all’altro, pregni di assoluta Estraneità. I miti della contemporaneità non sono differenti da quelli delle altre epoche poiché l’inconscio non ha luogo nè tempo. A lungo negati e repressi quegli stessi miti sono diventati feroci nella prigione della cosiddetta ragione. Di qui la difensiva atmosfera metafisica che affiora da tutti i lavori di Valerio de Filippis che con sofferenza riconosce la “ fisicità “ in tutta la sua terrifica pregnante realtà come parte rimossa dell’umanità: in tal senso lentamente con la parola pittorica modella il nucleo della coscienza all’interno della quale illumina le mostruosità dell’essere umano rendendole inoffensive attraverso un processo catartico di rigenerazione e di riscatto.


NOTE
(1) J.J. Duhot, Socrate o il risveglio della coscienza, Borla, Roma 2000,p.88
(2) J. Chasseguet-Smirgel, Creativita’ e perversione, Raffaello Cortina, Milano, 1987, p.40
(3) R. Lombardi, Corpo, affetti, pensiero. Riflessioni su alcuni ipotesi di I.Matte Blanco e A.B. Ferrari in Rivista di Psicoanalisi, 2000,XLVI, 4, Borla Roma,p.p. 691-698.
(4) R. Lombardi, op.cit.


Santa Fizzarotti Selvaggi

Bari, settembre 2001

Testo critico tratto dal catalogo “La quiete del Terrifico” (Mostra itinerante)  

Roma, Palazzo Ferrajoli a cura di Santa Fizzarotti.– Benevento, Biblioteca Provinciale a cura di Santa Fizzarotti e Alessandra Lonardo Mastella.

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Essere o tempo  

   di Gabriele La Porta

 

 

Nessuno conosce la sua dimora
essa è nell'errore
e la sua esistenza è impostura.

William Blake

Richiami carichi di suggestione sono quelli che provengono dalle opere di Valerio de Filippis. E non solo per le immagini in se stesse, offerte dai quadri, ma anche per i titoli ed inoltre per le belle citazioni letterarie che l'artista abbina ad ogni quadro. Questi elementi verbali sono ben lungi dal risultare esplicativi, in senso stretto, rispetto all'opera pittorica, in quanto non sono stati predisposti con il ruolo di riprodurre, con una semplice sovrapposizione, quanto viene espresso dal linguaggio delle immagini. Ne deriva così un complesso ed evocativo discorso d'insieme sul piano concettuale e storico.
Già il primo quadro di questo viaggio attraverso gli ultimi due decenni, interpella fortemente l'osservatore con i tre messaggi, appunto quello visivo e quelli verbali, tra loro non immediatamente e non facilmente integrabili. Si tratta di messaggi che hanno in comune la provocazione, del resto già anticipata dalla didascalia generale della rassegna, che è: "La mia misura è l'eccesso...". Il titolo del quadro è ”
La fandonia dell'oracolo”. La citazione, tratta da "Tropico del cancro" di Henry Miller, dice: "Io sono un uomo che vorrebbe vivere una vita eroica e rendere più sopportabile il mondo ai suoi occhi". L'immagine propone in primo piano una distesa piatta e desolata, sulla quale campeggia la scultura di un guerriero antico nudo, con elmo, daga e scudo. La distesa è interrotta da grandi voragini a piombo. Al confine estremo, dalla parte più vicina emergono gli scheletri di due grandi alberi, mentre da quella più lontana si staglia lo scheletro un po' più piccolo di un altro albero, con accanto parimenti una scultura di un uomo, che in questo caso sembrerebbe disarmato e senza testa. Oltre il confine di quello che risulta essere una sorta di altopiano, si intravede in basso un' altra landa, a sua volta con una scultura.
Che cosa esprime tutto questo e secondo quale stile o appartenenza di scuola? La risposta non può essere immediata, ed è sufficiente un'occhiata agli altri quadri per rendersi conto della complessità della questione, in quanto agli elementi costanti si aggiungono quelli che di volta in volta appaiono diversi. Il percorso critico, o meglio, l'operazione ermeneutica, può quindi avere un carattere decostruzionistico, nel senso derridiano del riconoscimento delle stratificazioni depositatesi nell'opera in fase di ideazione e di produzione da parte dell'autore. E questo accade non solo a livello di coscienza piena della citazione, dell'allusione agli ascendenti, espresse in funzione finalistica rispetto alla lettura che poi dell'opera verrà effettuata, a chiarire che non si tratta solo di creazione pura, di assoluta intuizione lirica senza legami con una matrice. Il richiamo può agire infatti anche attraverso automatismi che non derivano scientemente dall'Io, ma che l'Io, poiché non appartengono all'area della rimozione, può comunque riconoscere. Che dire, allora, del quadro in oggetto? Certamente si allontana di molto dal naturalismo ingenuo, spontaneo, della pura e semplice rappresentazione della realtà. E' questo, del resto, un atteggiamento in linea con il fatto che, nonostante alcuni tentativi effettuati in questo senso, di restaurazione neoclassica, la pittura contemporanea si tiene ormai, dal tempo della svolta impressionistica della seconda metà dell'Ottocento, che pur essendo figurativa introduceva il soggettivo della percezione visiva, lontana da tale visuale. Allora, si tratta di fare i conti con le avanguardie, da quelle storiche di inizio Novecento fino alle neoavanguardie seguite alla svolta di metà secolo e, secondo la felice espressione di Achille Bonito Oliva, alle "transavanguardie", che segnano la libertà tipicamente postmoderna di prelievo e di contaminazione. In questo modo è possibile essere se stessi, secondo la propria peculiare sensibilità, pur essendo partecipi del proprio tempo e degli stili che lo caratterizzano.
A livello dei messaggi verbali di Valerio de Filippis, l'area di riferimento che balza in primo piano è quella dei movimenti più dinamici, in qualche modo ribelli, "eroici" non tanto in relazione ai conflitti terreni, quanto, in senso tragico, nel rapporto con l'Essere e con la vicenda della vita in se stessa. Si tratta quindi dei movimenti postimpressionistici più filosofici di transizione al Novecento, che portano alla fase precubista di Picasso, poi di quelli sorti in relazione con l'esperienza della Bauhaus di Gropius, in primo luogo l'Espressionismo, infine del Surrealismo. E la frase di Miller è in questo senso molto esplicita. Dal titolo dissacratorio e ribelle del quadro viene sostanzialmente una conferma in tale direzione. In quanto all'immagine, essa si rivela non in contrasto con questa interpretazione. L'atmosfera è quella fredda dell'assenza di movimento, addirittura di vita. L'ambiente è irreale, da incubo. Il surrealismo tragico è direttamente evocato. Mettendo insieme gli elementi verbali e quelli non verbali ne risulta l'annullarsi di ogni possibilità, quindi delle illusioni, e in questo senso va inteso il fallimento dell'oracolo, con la sconfitta dell'eroe. Il quadro successivo, dal titolo “
L'incertezza del domani”, secondo la linea logica individuata di un nichilismo eroico, dove però l'eroe, come nel mito di Sisifo, non è mai domo, verrebbe prima nel tempo. L'ambiente è tetro, minaccioso, con quelle scogliere sul fondo, ma l'acqua è più viva degli elementi del quadro precedente, e soprattutto è viva la donna in primo piano, che si offre al sole anche se pensosa. Qui a togliere le illusioni è la citazione del testo di Capograssi, che dichiara l'impossibilità dell'esistenza di ancorarsi all'orizzonte stabile dell'essere ( “E qui è tutta la finitezza (…), questo avere la vita momento per momento, questo averla a goccia a goccia, non potersi mai sentire compenetrare in essa, non potersi mai sentire essa.”) Il riferimento di scuola può essere in questo caso il Simbolismo ambiguo di Khnopff, di Hodler. De Chirico, comunque, preme alla porta. Interessante è il fatto che la rassegna, dopo l'avvio con le tre opere d'inizio degli anni Ottanta, compie un salto in pratica verso l'attualità dal 1996 in poi, con un quadro solo di transizione, che è “Amore ai margini di un'autostrada”, del 1989, al quale è abbinata la citazione del frammento "Verso di voi, così belle, il mio pensiero non muterà mai", della poetessa dell'antichità greca Saffo, che aveva costituito nell'isola di Lesbo un tiaso poetico ed erotico con una comunità femminile. Si tratta di un quadro che rappresenta un amplesso tra due donne, probabilmente, coricate in un prato sottostante la carreggiata di un'autostrada. La figura che si china sull'altra è certamente femminile, con il seno nudo in evidenza. L'altra, supina ed estatica, con i capelli che si confondono con l'erba, ha gli occhi socchiusi, i lineamenti delicati e le sopracciglia curate. Sul significato dell'insieme dei messaggi, si può ipotizzare l'acquisito passaggio alla consapevolezza del postmoderno filosofico, con il suo relativismo. Ma tale accenno è carico di solennità e di mistero. Quel "non muterà mai" esprime una volontà irriducibile di assoluto.
Nella serie dei quadri, sono molti quelli che presentano figure esili, evanescenti, dai tratti sfumati, senza fisionomie riconoscibili. Le figure umane, in se stesse e nel loro intrecciarsi, sono inquietanti, così come lo sono la scena e l'atmosfera, i titoli, i testi abbinati. Ma sempre traspare l'ostinata resistenza dell'eroe, se non apertamente dichiarata, manifestata però dalla freddezza dell'analisi, della descrizione del fallimento, che non viene mai accettato e sublimato. Il quadro “
La soglia all'orizzonte obliquo”, del 1998, è abbinato alle parole di Viviani, tratte da "Una comunità degli animi": "Indomabile sguardo che cerca altri mondi in questo. Da sempre ha scambiato la luce per i corpi, ha chiamato sostanza ciò che non si mostrava, ha sconvolto paesaggi, ritorni, incontri: ha bruciato tanta vita fino a spegnersi". Qui siamo al di là delle illusioni, dove appunto l'"orizzonte" diventa "obliquo". L'essere non si è rivelato, nonostante la dedizione e i sacrifici che hanno contrassegnato la sua ricerca. L'immagine del quadro presenta figure umane dai caratteri suddetti, in pose che esprimono disperazione, mentre una appare come sospesa nel vuoto, forse appesa per il collo. Il quadro “Serie dei sette peccati capitali: Ira”, del 1999, presenta un gruppo di uomini nudi, sempre con l'aspetto di larve evanescenti, abbattuti anche se ancor vivi, o in procinto di esserlo, mentre uno solo di loro è ancora eretto a sfidare il destino con lo sguardo volto all'orizzonte, in un ambiente ancora una volta desolato e privo di vita. Il testo abbinato è di Dante: "Mentre noi corravam la morta gora, dinanzi mi si fece un pien di fango". E' tratto da "La divina commedia" e riguarda il girone appunto degli iracondi, con il personaggio di Filippo Argenti che si fa avanti intrecciando con Dante un dialogo sorprendente. "vedi che son un che piango", egli dice, ma Dante non manifesta per lui alcuna comprensione, ammirazione, affetto, come per Francesca, Ulisse, anche avversari politici come Farinata degli Uberti e così via. Anzi, gli esprime tutto il suo disprezzo. Qual è il significato? Sta presumibilmente nella stessa intima contraddizione tra il messaggio iconico, con l'uomo che sfida il destino inesorabile, e quello verbale, che ristabilisce i termini del confronto impari. Nell'ordine ontologico del destino l'"ybris", la protervia umana nei confronti degli dei soccombe, ma l'animo in qualche modo rimane indomito. L'eroe sarà a sua volta abbattuto, ma non piegato come gli altri che accanto a lui si muovono carponi. In tutti questi quadri il richiamo alla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e al surrealismo di Salvador Dalì appare evidente. La filosofia che traspare, data dalla consapevolezza del tragico in ultima istanza non risolto, in quanto si istituisce uno sdoppiamento tra l'eroe rappresentato e l'Io narrante che con esso si identifica, ma che continua comunque la sua ricerca.

 

Gabriele La Porta

Roma, ottobre 2001

 

Testo critico tratto dal catalogo “La quiete del Terrifico” (Mostra itinerante)  

Roma, Palazzo Ferrajoli a cura di Santa Fizzarotti.– Benevento, Biblioteca Provinciale a cura di Santa Fizzarotti e Alessandra Lonardo Mastella.
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Il genio perverso dell’arte

  di Francesco Barresi    

                                                                                                                    Il corpo è fame, ma la fame è ritmo:

ponete l’accento sull’una,

e avrete il segreto dell’esistenza;

ponete l’accento sull’altro,

e avrete il segreto dell’arte e del sadismo.

 

Gino Raya (1)

 

Valerio de Filippis è un artista poliedrico, da sempre impegnato in un continuum teso alla ricerca di un personalissimo vissuto introspettivo che lo rende definibile come un intellettuale della violenza velata.
La grandezza di de Filippis consiste nella semplicità con cui cerca di dare delle risposte a delle domande grandiose che nessuno gli pone, se non la sua stessa coscienza, quale testimonianza per comprendere il mondo circostante, l’arte e soprattutto se stesso. Egli ripercorre, trasudandone i connotati tipici, l’epoca della nostra società urbana e della sua gente, nella struttura psichicamente malata dei suoi torbidi segreti.
Le sue opere testimoniano la modernità iconografia dell’essere, che parte dalla base di una concezione fisiologica dell’ animo umano, dove l’intimo mistero dell’ uomo, per l’artista, è un ulteriore strumento di ricerca sul significato del dramma umano, sia in chiave sociale sia in chiave individuale.
I soggetti di de Filippis, quindi, riproducono metafore di clamorosa attualità, concernenti contesti specifici di committenza che finiscono con l’ interagire ampiamente con la situazione umana spesso angosciante del suo tempo.
La trama delle sue tele si mostra non semplicemente bifrons, bensì multifrons, cioè molteplice, sfaccettata, pluralistica, un luogo dello spazio interiore, oltre che fisico, che esercita nell’ osservatore, in una parola, un’attrazione misteriosa e morbosamente intimistica della perversione umana.
Quello che poi colpisce è l’originalità della sua concezione pittorica e del suo stile, tutto reso a rappresentare la realtà agghiacciante e morbosa della vita quotidiana che ci circonda.
Ma le tele di de Filippis non sono mai forti e scioccanti: forte e scioccante è il contenuto che traspare grazie all’ estro sottilmente “perverso” dell’ artista, che riesce ad infondere anche nel comune osservatore una serena ma morbosa curiosità del cruento.
L’osservatore attento sa cogliere sempre quella sottile linea di morbosità che delimita il limite tra  l’osceno, crudo e sgraziato e la perversione, raffinata e pungente, attraverso cui l’artista riesce ad imprimere, con vivida e traslucida malizia, l’ incanto della cruda ma al tempo stesso docile essenza della torbida carnalità. La sua arte è quindi un chiaro invito rivolto a ciascuno di noi a diventare terapeuta di se stesso, perché ciascuno di noi possa interagire con le proprie ossessioni e pulsioni, attraverso un approccio strutturale atto a cogliere i principi del funzionamento perverso dell’ animo umano che spesso penetra i misteri dell’ inconscio, valicandoli.
Il catalogo cerca di cogliere i suggerimenti che emergono dalle tele di Valerio de Filippis per meglio interpretare i suoi lavori, che hanno dato forse una svolta fortemente rivoluzionaria al panorama dell’ arte contemporanea italiana.
Le tele raccolte in questa mostra offrono un’avvincente occasione di lettura della nostra società, tale da poter interessare il pubblico più diverso. Difatti, nonostante l’avvertibile impegno tecnico mostrato dal pittore e la tensione personale più intimistica tesa a sostenerlo, queste tele hanno il pregio di trattare con accuratezza specialistica le tematiche della morbosità che un’invidiabile lucidità pittorica e una non meno rimarchevole chiarezza raffigurativa rendono del tutto accessibili anche a coloro che si avvicinano per la prima volta alle sofisticate problematiche trattate.
Nei quadri di de Filippis aleggia inesorabile un senso di morte: in essi è quasi tangibile un senso di macabra visione degli elementi urbani, dove spesso la fragilità della carne è contrapposta alla durezza dell’ acciaio. E’ il caso di
Bimba nei pressi di una periferia (1982), dove in una landa desertica, dietro il cui orizzonte si intravede la sagoma di una metropoli, accanto a carcasse di automobili la sensualità in fieri di una ragazzina è storpiata solo dalle sue lacrime di emoglobina, mentre dietro le sue spalle la caricatura di un moncone di tronco umano, forse dilaniato e squarciato dopo un terribile scontro, sembra implorare aiuto, rantolando e strisciando nella sua stessa pozza di sangue.
Un feticismo dell’amputazione potrebbe caratterizzare il soggetto dell’ artista, così come è rimarchevole il riferimento alla statuofilia(2) nella tela Vita al limitare di un cimitero d’auto (1983), nella quale due manichini, forse capitati casualmente l’uno sull’altro, sembrano amoreggiare tra le lamiere di un’auto in un tripudio di organica plasticità, quella stessa organica plasticità di cui sembrano pervase tutte le opere dell’ autore, specie quelle del secondo prolifico periodo.
Plasticità delle forme che è così evidente ne
The straight’s nursery (1995). Qui è rappresentato “l’altro da noi”, l’alter ego, quello che osa solo nel più intimo dell’oscurità del privato. E’ in scena la doppia vita della farsa, quella che Goffmann chiamava rispettabile “facciata”, che si mostra solo sul palcoscenico della vita e che si contrappone alla sostanza del nostro essere che è visibile solo nella “ribalta” dell’oscurità della nostra casa, lontano dagli sguardi indiscreti della società(3). Un uomo, un grigio impiegato presumibilmente espunto dalla quotidianità dell’ovvio e del suo stesso rigore, fa rientro nel buio del suo appartamento, dove sembra ritrovare la sua oscena vera, sola comunità di riferimento, in cui nude donne legate e sottomesse danzano un’orgia del bondage(4) solo apparentemente mimata, ma dalla quale traspare tutto il mondo malato e perverso della sadica sessualità del protagonista. Anche ne I relitti dell’illusione (1997) e nei tre successivi Allucinazione 25, La soglia all’orizzonte obliquo e Intruder, tutti del 1998, sono rappresentate danze orgiastiche tra indefinibili figure plastilinee impegnate ancora in giochi di bondage (specie nel primo) o drammaticamente evocative di drammi irrisolvibili scaturenti in atti di violenza autodiretta (La soglia) o ancora triolistici cunnilingus più o meno consenzienti perpetrati tra fiamme infernali.
E proprio l’Inferno e le sue pene, in alcune opere, sembra che de Filippis voglia rappresentare (e sembra farlo con spontanea facilità), come vedremo in epoca più recente.
Ma è solo con
La bestia (1999) che vengono a connotarsi maggiormente le matrici parafiliche(5) dei futuri soggetti defilippiani. In quest’ opera, basata tutta su un’immota attesa di eventi morbosamente cruenti, è lapalissiana l’ispirazione fetish(6) dell’artista. Un uomo nudo, col volto travisato da una mascherina arancione, è immobile con delle catene in mano, contemplando ed assaporando il piacere che gli deriverà dall’utilizzarle sulla donna, presumibilmente consenziente, già incatenata che gli si pone innanzi vestita solo con un completo leather, guanti, minigonna e stivali neri. Qui il sottile dualismo che lega il rapporto master-slave(7) è rappresentato dalla stessa catena, che unisce, ineluttabilmente, vittima e carnefice, in un gioco alla violenza ricercata e agognata da entrambi gli attori, tutti volti ad un’insana ricerca del piacere nel dolore. Il crimine qui non c’è: vive solo il reciproco intendimento della costrizione auto-etero diretta, attraverso la quale i protagonisti esperimentano forti sensazioni psicofisiche, sprigionando fenomeni di vera e propria estasi organica.
Scomposizione (2000) continua la tematica dell’ s/m(8) inaugurata da La bestia. In essa è rappresentata l’ambivalenza dell’animo umano e del suo doppio, raffigurata nel dettaglio delle mani appoggiate sui fianchi di una personalità sadomasochista: quella di sinistra, brandente una piccola frusta, quella di destra imprigionata invece da un bracciale di una catena, entrambe, anche qui, in una statica attesa che prelude a momenti di cruento piacere estremo. E’ espressa, attraverso il linguaggio simbolico dell’arte, la metafora del dualismo introspettivo della diade sessuale riscontrabile nelle sessuopatie più importanti, tutte basate sull’ eterno binomio dolore/piacere.
E dolore e piaceri ormai perduti sono emozioni che traspaiono dall’ opera
Serie dei sette peccati capitali: Lussuria (2000).
Qui l’ ispirazione iconografica è di chiaro stampo cinematografico: il riferimento abbastanza esplicito all’attività omicidiaria del serial killer protagonista di Seven(9) serve da contro altare all’artista per rappresentare il suo personalissimo concetto autobiografico di punizione. Come John Doe, il killer sociopatico protagonista della pellicola, compie omicidi moralistici perpetrati ai danni di vittime che si sono macchiate in vita di uno dei sette peccati capitali (gola, avarizia, accidia, superbia, lussuria, invidia, ira) così anche il nostro artista punisce una donna dedita ai piaceri della propria sessualità, “attraverso un delitto concettuale”(10) Il soggetto è rappresentato in tutto il suo cruento e macabro realismo dall’ artista che, in un
“esplicito rituale allucinatorio”(11)e in un delirio catartico, scarnifica l’essenza stessa della rappresentazione della morte, ostentandola.
La donna giace su un prato verde, con i segni di una violenza carnale subita e svelata solo dalle vesti strappate, incaprettata mani e piedi dietro le terga accanto a cadaveri di cigni bianchi, in un grottesco bondage di commistione necrozoofilica. Se nella pellicola cinematografica il serial killer per i suoi omicidi si ispirava a Dante, Shakespeare e Chaucer, nella tela il de Filippis sembra ispirarsi ai canti di virgiliana memoria: il paesaggio bucolico, il verde, l’acqua del lago e il sole che albeggia rappresentano tutti la vita, che si contrappone con modalità inesorabilmente cruente alla morte della donna, dei valori, della bellezza, della natura data dai cigni, dei piaceri della sensualità e della carnalità. Una tela forte nel significato, che impatta l’osservatore, mai grandguignolesca ma dotata di un certo fascino perverso che intriga e colpisce a riflettere l’osservatore, catturato dall’ immota rappresentazione della naturalità della morte e della fine “della peccatrice messa alla stregua di animale, predata”(12) da uno sconosciuto ma reale cacciatore seriale. E la realtà finisce per confondersi con l’arte: molti assassini seriali, molti “predatori”, sono difatti attratti dalla pittura, che diviene una delle modalità surrogate preferite per esprimere la loro interiorità malata e tormentata(13). L’arte e l’omicidio seriale sono quindi sempre finiti col confluire : spesso, il fascino perverso e disturbante dell’ omicidio sessuale ha finito con l’ influenzare le avanguardie pittoriche di vari periodi. Esponenti artistici del calibro di Otto Dix, George Grosz, Alfred Dòblin(14) e Francis Bacon anch’essi, come de Filippis, nelle loro opere raffigurano i fantasmi della loro ossessione: il sesso, la morte, la violenza, la fine, il Male.
Sono archetipi del Bene e del Male, quelli rappresentati da due identiche figure unicorni d’argilla antropomorfa, che si fronteggiano carponi nel mezzo di un’arida radura, in
Lotta interiore (2001), il cui titolo esplicitamente autobiografico sottende l’eterna lotta belluina degli opposti, del bianco e del nero, del femmineo e del mascolino. La figura antropomorfa del Bene, riconoscibile forse per l’unicorno bianco, simbolo della potenza della Bontà, e quella del male, riconoscibile dal rosso alito di fuoco, sono le facce della stessa medaglia uomo: esse sono, unite simbioticamente, il principio del Baphometto satanista, vero simbolo magico del tutto e del contrario del tutto, disegnato dal grande occultista Eliphas Levi(15), rappresentante l’eterno ambiguo dualismo dell’ umanità, essenza stessa sia del Male assoluto che del Bene relativo. I canoni del Bene e del Male si ritrovano in Una Venere occidentale (2001). Qui si possono riscontrare spunti di letteratura dell’orrore: su una metropoli ultramoderna, immersa nel buio della notte e solcata da alti tralicci sanguinolenti, veleggia la sagoma di una donna dorata, nuda sino al ventre, che sfuma nella doratura di un’enorme macchia rossa nell’ oblio dell’oscurità, mentre al cui fianco una mano sporca di sangue,  che fuoriesce dalle maniche di una giacca, brandisce un fallico stiletto appuntito che lambisce le sue nude gambe. L’orrore dell’uccisione qui è solamente suggerito dall’ osservatore smaliziato, che riesce comunque ad intravedere le gesta di un attualissimo Jack lo squartatore. Difatti, se in primo piano è evidenziata una moderna megalopoli, ad essa si contrappunta una pièce che ricorda la violenza dell’antieroe dell’epoca vittoriana, riesumato qui dall’artista per ricordare che la dissolutezza può essere sempre punita, in qualsiasi epoca. La denuncia alla dissoluta e libertina società odierna, rappresentata dalla donna “dorata”, e di cui l’artista stesso fa parte, e oltremodo manifesta, così come il chiaro intento di “dissacrare la bellezza delle sue figure femminili (…) attraverso un atto di violenza subliminale”(16). Sposi (2001) rappresenta invece un sarcastico e cinico tentativo da parte dell’artista di ricreare e riproporre quegli antichi valori sociali ormai perduti e “ritrovati” nella moderna famiglia alle soglie del terzo millennio. Ma, in realtà, quei valori enucleati dal de Filippis non sono altro che la grottesca caricatura, rappresentata dall’ennesima parafilica rappresentazione del legame basato sulla pratica sessuale del private(17). Il “marito”- carnefice, in primo piano, è difatti travisato da una tunica con cappuccio nero e stringe tra le mani una verga, mentre alle sue spalle si intravede la sagoma scheletrica e mummificata della vittima-compagna, intenta a mordicchiarsi il labbro, unica parte organica ancora rigonfia di sensuale vitalità, nell’attesa di assaporare le sensazioni di piacere che la violenza del partner le procurerà.  E’ la rappresentazione dei nuovi valori della famiglia odierna, è la raffigurazione della sofferenza del piacere, è la dimostrazione del legame basato sulla perversione della sessualità.
Un tributo di chiara ispirazione necrofilica è la sessualità che viene raffigurata dall’artista in
L’incidente (2001). Se di fatti l’opera del 1983 aveva per protagoniste due figure inanimate, qui le figure antropomorfe esprimono tutta la loro vitale e pulsante deviazione, basata sul feticismo di un’organicità malata e ferita. In una automobile incidentata, un uomo si avvinghia sessualmente su un corpo femminile, il cui capo riverso in modo così forzatamente innaturale non può che connotarlo ormai come deceduto. Come il contorto e malsano percorso condotto da Ballard nel suo romanzo(18), così Valerio de Filippis, nella durezza della rappresentazione di un atto necrofilico, esplora le perversioni umane spinte alle loro estreme propaggini in un torbido percorso alla ricerca del pericolo e del piacere estremo, teso tutto alla ricerca di un feticismo dell’ organicità malata, ferita ed umiliata. Ma attraverso lo sguardo di de Filippis, i corpi, che siano di plastica o di carne, diventano un’introspettiva sinfonia visiva basata su un’armonia organica.
L’annientamento della donna è ostentato in
Le armi reciproche (2001), dove tre donne nude di spalle scorrono come sagome di un bersaglio lungo l’ipotetico poligono della vita, mescolandosi ai flutti impetuosi dei loro stessi capelli, inquadrati dal mirino minaccioso di un killer prossimo all’ azione omicidiaria. Anche qui è punita la sessualità della donna, utilizzata sovente come arma di seduzione per conseguire meri fini materialistici, e nulla può l’uomo, assassino del suo stesso piacere, se non ribellarsi a tanto oblio della carnalità con l’unica arma a sua disposizione, una fallica carabina.
L’inferno artistico e visionario defilippiano trova l’apoteosi ne
I ciechi o La beatitudine dannata (2001), la cui dinamicità drammaticamente rappresentativa dell’ insieme è lacerante. Qui il Pandemonium è raffigurato nelle figure plastilinee che sembrano sorgere da un plasma magmatico dell’oblio infernale: sulla sinistra una folla di anime dannate si dispera sulle apparentemente solide e sicure rive da cui però si innalzano minacciose lingue di fuoco fluorescente, dalle cui spire sembra librarsi un’anima verso il cielo limpido del Paradiso Perduto(19). In primo piano, un’altra, quasi sfinita, appoggiata su una specie di roccia innalza una candela, forse unica fonte di luce e di calore per individuare l’anelata via della vera salvezza rappresentata da una stella a sei punte, che altri è se non l’apportatore di Luce, Lucifero il Principe degli Inferi, alla cui base sovrintende una sinistra figura demoniaca che, immobile, assiste indifferente e compiaciuta all’ oscena e tragica danza dei dannati ciechi.
Spietata e drammaticamente cinica la conclusione nelle parole dello stesso artista, che non lascia spazio a soluzioni di continuità: “…in ogni caso la direzione per la beatitudine è dannata”, cioè, a suo dire, è effimera ed illusoria, perché non lascia alcuna speranza
all’umanità, afflitta nell’ intimità del proprio essere da un’ ineluttabile ed insanabile cecità spirituale.

NOTE
1) Gino Raya, L’ arte di uccidere, Ciranna 1970, Roma.
2) Ossessione sessuale per statue, oggetti e rappresentazioni antropomorfe.
3) Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino 1969, Bologna.
4) Pratica sessuale di costrizione mediante l’ utilizzo di corde, lacci, catene, bende, ecc.
5) Sinonimo di perversione. Assume valenza patologica se essa viene a sostituire completamente il normale atto sessuale.
6) Passione per materiali, abbigliamento (pelle, cuoio, PVC, tacchi alti, stivali, lingerie) od oggetti che trasmettono forti sensazioni e simbologie sessuali.
7) Nel lessico del sadomasochismo, indica il rapporto dominio – sottomissione tra il Padrone (il Master) e la schiava (la Slaver).
8) Acronimo di sadomasochismo.
9) Seven, di David Fincher, 1995, USA .
10) Hary Kelvin in Sperimentali ritrovi, di Fortunato Bruno, Associazione Culturale AllucinaNazione.
11) Hary Kelvin, Quando la paura diventa logo, Associazione Culturale AllucinaNazione.
12) Hary Kelvin, Aberrazioni contemporanee, Cronache del duemila, 26 / 7 / 2001.
13) Ruben De Luca, Anatomia del serial killer, Giuffrè 2001, Milano.
14) Ruben De Luca, op. cit.
15) Eliphas Levi, Il rituale dell’ alta magia, Brancato 1996, Catania.
16) Hary Kelvin, Sperimentali ritrovi, op. cit.
17) Varianti del fetish con l’ aggiunta del travisamento del volto mediante cappucci o maschere.
18) J. G:Ballard, Crash, Bompiani 1973, Milano.
19) John Milton, Paradiso Perduto, Mondadori 1984, Milano.

 

Francesco Barresi

Roma, luglio 2001

 

Testo critico tratto dal catalogo “La quiete del Terrifico” (Mostra itinerante)  

Roma, Palazzo Ferrajoli a cura di Santa Fizzarotti.– Benevento, Biblioteca Provinciale a cura di Santa Fizzarotti e Alessandra Lonardo Mastella.

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Teologia della perdizione

   di Lucia Spadano

Valerio de Filippis, con i suoi lavori, sembra voler ricondurre tutte le esperienze di questi ultimi anni riconducibili all’interesse per il corpo ad una unità diversamente fondata. Non più l’appostarsi dietro la virtualità per poi tentare un vano radicamento nel sé attraverso l’incremento di una violenza il cui bersaglio oramai non ci appartiene più, ma la riconquista di quel bersaglio stesso con armi apparentemente tradizionali. Le sue armi sono quelle della pittura e del disegno, dell’invenzione simbolica e della prensilità nei confronti dell’arte contemporanea, intesa quest’ultima come coesistenza storica di poetiche consolidate e scaltrite sì dal contatto con la fotografia ed il cinema, con la pubblicità e la manipolazione mediale, ma pur sempre pronte a rispondere in proprio della loro strategia comunicazionale, della loro ambizione a produrre significato. Ecco dunque che il corpo, martoriato, offeso, assalito, riappare, al di là del mezzo usato, al di là del registro espressivo adottato, con tutta la sua capacità di attrarre e respingere, di sedurre e di disorientare, di coinvolgere e di annichilire. E’ un corpo segnato dal dolore, ma anche un corpo che non rinnega il piacere che avrebbe potuto donare o donarsi. E’ un corpo teso fino allo spasimo ma anche smarrito nei meandri della sua stessa tensione. Il paragone può apparire azzardato e senz’altro per molti versi lo è, tuttavia non possiamo esimerci dal notare che le opere più e meno recenti di de Filippis, osservate così una accanto all’altra, una nell’atto di dialogare con l’altra (o anche di contraddirla), evocano una chiamata a raccolta di sapore Dantesco, quasi un concorrere al Giudizio Finale di chi è già stato giudicato e condannato, e tuttavia ha ancora molto da dire, molto da rivelarci non su se stesso e sulla tragedia di cui si fa portatore, ma sul dramma umano nella sua interezza, nella sua infinita varietà che comunque ruota sempre attorno agli stessi parametri, alle stesse contraddizioni, alle stesse forme di incommensurabilità. De Filippis ama mostrarsi scettico sulla possibilità di ricondurre ad un equilibrio il gioco con cui l’uomo è chiamato a misurarsi; come un teologo della perdizione sembra propendere per l’insanabilità. Tuttavia l’artista romano non si nasconde dietro le tecniche della riproduzione, dietro l’apparenza della ripresa gelida e oggettiva, piuttosto egli forgia le sue immagini con la mano e con il pensiero, con passione pari alla sottigliezza e con irruenza pari all’abilità tecnica. E tornare a pensare in termini di arte legata alla soggettività, all’interezza e all’esperienza della persona che agisce e crea, vuol dire pur sempre proporre una forma di “elaborazione”, una strategia di ricongiungimento alla soggettività binaria dell’ego di quella indistinzione primaria che è il corpo, di quella insondabilità del vivente che la cultura del visivo, seguendo le indicazioni di de Filippis, ci ha aiutato ad estroflettere e conoscere come  rispecchiamento in qualche modo collettivo.

 

Lucia Spadano

Testo critico tratto dal catalogo “Teologia della perdizione”

Orvieto (TR) Chiostro di San Giovanni, 2002

E dalla rivista d’arte “SEGNO” (Pescara,  gennaio-febbraio 2002)

 

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Valerio de Filippis -- Teologo della perdizione?

   di Philip Jenkins

Nelle opere più recenti di Valerio de Filippis, che si possono unire sotto l'etichetta della teologia della perdizione, si possono distinguere le energie distruttive che minacciano l'umanità, le quali sono di tal potere che sono quasi irresistibili. “Carnevale o L'avvento della Grande Bestia” (2001) esprime questo fenomeno tematicamente nel protagonista grande e malevolo che estende le sue dita sul globo con la conflagrazione alle spalle.

Un conflitto violento fra maschile e femminile era evidente nei quadri precedenti, ma una visione ancora più severa domina coloro che seguono. Possiamo vedere nel “Corpus Hypercubicus di Dalì tra due fuochi” (2001) una risposta al 11 settembre 2001 e la guerra in Afghanistan. L'artista mette in primo piano l'immagine del Cristo daliniano e una delle teste primitive di Giacometti, come se l'unica risposta adeguata fosse il rivolgersi al repertorio moderno di immagini artistiche.

Valerio de Filippis adopera la forma tradizionale del trittico nei quadri più recenti, ma questa scelta formale fa pensare più all'arte di Francis Bacon che all’altare cattolico. Bacon usava il trittico per creare una dinamica fra figure isolate, mentre de Filippis lo usa per suggerire un rapporto narrativo. I due trittici “Snuff I” e “Snuff II” (2002) presentano la degradazione del corpo umano al livello più personale della violenza ritualizzata.

Il fascino dell’obesità è una variazione sul tema della perdizione. Se in “Bondage Iubilaeum II” (2002) l'artista dipinge una turpitudine morale, in “Freaks Beauty” (2002) prova più gioia nella obesità graziosa.

La risposta italiana all'arte di Valerio de Filippis si preoccupa per la visione difficile dell'artista. Il fulcro del dibattito che precedette l'apertura della mostra a Palazzo Ferrajoli a Roma in ottobre 2001 era la possibilità di accettare questa visione. Ed i quadri piú recenti esposti a la XXIII edizione di Expo Arte a Bari e a la mostra in Orvieto in giugno 2002 suscitavano molta discussione per la loro tematica.

Comunque, ciò che colpisce me, è la plasticità della pittura defilippiana, l'aderenza a materiali tradizionali, la mediazione della violenza nell’opera e il campo epico che raggiunge tale opera di tanto in tanto.

Ed il pittore Livio Orazio Valentini (San Venanzo, 1920), conosciuto per la sua reinterpretazione degli affreschi del Signorelli nella Cappella Brizio del Duomo di Orvieto in 1985, sottolineó le capacità pittoriche di de Filippis in una conversazione privata nel mezzo di una reazione orvietana scandalizzata.

Preferirei capire Valerio de Filippis come un messaggero in una tragedia della Grecia Antica che presta testimonianza a un disastro terribile, e non come un pittore tormentato da demoni personali. È il mondo tormentato che trova un'espressione chiara nelle sue opere.

Philip Jenkins

Londra, 2002

 

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Oscena progenie

   di Francesco Barresi

 

                                                                                                         “Sono l’Impero alla fine della decadenza

                                                                                                    che guarda passare grandi Barbari bianchi,

                                                                                                                        componendo acrostici indolenti,

                                                                                         dove danza il languore del Sole in uno stile d’oro”

                                                                                                                                               

                                                                                                                                              Paul Verlaine

   

Coraggiosa ed originale è la ricerca artistica di Valerio de Filippis, che si sviluppa attraverso una provocatoria rappresentazione di personalissimi abomini silenti e scultoree presenze di vuoti infernali, riempiti a sprazzi solo dalla flebile luce della disperazione umana.

Definitolo in altre sedi come intellettuale della violenza velata, tra lo strabordare dei cromatismi pittorici delle sue tavole, emergono allusivi riferimenti alla drammaticità degli eventi umani, da cui forse l’autore stesso è inesorabilmente e morbosamente attratto: la pittura di de Filippis è il soddisfacimento catartico dei bisogni più inconsci di ogni essere umano.

Nei suoi quadri troviamo anche riferimenti ai cataclismi provocati dalla guerra: un Cristo cubista, di daliniana memoria, è martoriato dalla reazione omicida di un Occidente ferito e mutilato e dal fanatismo suicida dei nemici dei culti occidentali. E così, l’atroce calvario del protagonista, tra flutti impetuosi di esplosioni sanguigne, sembra essere vissuto e condiviso dall’ autore, attraverso una passione ed un’empatia che, trasversalmente, troviamo pure in tutte le sue opere.(1)

In quest’ottica, l’assunto introspettivo di Valerio de Filippis non solo sembra pertenere propriamente all’ universo pittorico, fatto tutto di slanci creativi basati su di un espressionismo shock, ma anche a quello “radiografico”, dove l’autore immortala la realtà a lui circostante filtrandone ciò che non sempre è visibile: de Filippis pennella con oculata malizia le suggestive deviazioni della società moderna, attraverso enucleazioni policrome che soggiacciono solo al suo estro creativo, malato e perverso.

E’ un’umanità corrotta e spezzata quella che ci offre l’artista nelle sue opere, ma per questo meritevole di rispetto autentico, quel rispetto che nasce dalle emozioni che le stesse sono capaci di suscitare. Palindromi della contestazione, i ritratti di de Filippis spiazzano per la loro crudeltà intellettuale le nostre menti razionali e retrograde, attraverso la rappresentazione della carne decontestualizzata.

Apparentemente disturbanti, le tele del de Filippis sono la semplice raffigurazione oleo- radiografica della realtà circostante cui lo stesso autore appartiene.

Il genio estremo di de Filippis produce un’arte oscura e perversa, ma nello stesso tempo dannatamente rassicurante. Le sue figure plastiche, difatti, se pur mostruose sono raffigurate attraverso una edulcorata rappresentazione delle aberrazioni della natura umana: freaks, demoni, abietti assassini e criminali sociopatici sono ritratti, sul tragico carrozzone del circo defilippiano, nella loro stessa malata, ma nel contempo, compassionevole naturalezza.

L’autore sublima la propria pulsione dell’efferato e realizza tutto ciò attraverso angosciosi quadri che raffigurano l’immota dualità della natura umana: quella benigna, subordinata e quella matrigna, dominante.

Ed eccolo, l’universo malato da cui è attratto il de Filippis, popolato da fantasmi che, rappresentandoli, riesce ad esorcizzare e in questo modo allontanare.

Grandi madri informi e palesemente ermafrodite ne sono poi la tragica rappresentazione: quella di un’umanità distorta, malforme e ripugnante, ma al tempo stesso così dignitosamente autenticata dalla carica poetica che l’autore riesce a restituirle.(2)

Alle inquietanti figure pittoriche delle putride matrone defilippiane, si contrappongono le plastilinee figure femminee che, tese tutte in uno sforzo posturale smaccatamente seduttivo, maliziosamente si esibiscono nei loro corpi nudi al nulla, cui sembrano tendere anche per opera di un killer, forse seriale, in letale agguato omicidiario.(3)

La donna, la Grande Seduttrice, è punita e ne è scarnificata l’essenza del male che si assopisce, sornione, nella profondità delle sue calde rigogliose viscere.

Oscena progenie di esseri informi che annacquano nel mantra magmatico dell’oblio infernale, sembrano essere le caricature dello stesso orrore, ma pure velate di una melanconica tristezza, che permea di sé l’immagine della decadenza, ostentandosi penosamente allo spettatore attonito ed ormai incredulo di fronte a tanta abietta concupiscenza.(4)

Torvo è difatti l’animo di chi vive il guasto universo di de Filippis, che riesce ad ottundere chi lo visiona ed attanagliare chi lo legge, anche attraverso un insito cinismo emozionale di diabolica e rara maestria, che solo l’autore è capace di infondere allo spettatore sgomento.

Ed ancora un osceno Dio priapico sembra avere nelle proprie mani il destino, oramai segnato, del mondo e della sua sordida umanità, stretta in una morsa tra nuvole di oscura fuliggine infernale.

Il tempo e le ideologie sono stravolti, sospesi quasi in una nuova dimensione limbico - atemporale, dove l’autore ripercorre le gesta nefande dell’umanità e solo quelle.(5)

Sembra quasi che il de Filippis voglia in queste sue tele esprimere tutto il proprio rancore nei confronti di una razza, quella umana, cui egli stesso appartiene e, forse, ne condivide anche i suoi fantasmi malati quanto nascosti, colpevole della propria degenerazione ed autodistruzione, evocando così simbolismi archetipali propri del maledettismo pittorico.

Ma l’apoteosi del ”malsano” è forse rappresentata maggiormente dai lavori che appartengono al filone “ideativo-religioso”, dove è rappresentata la denuncia (neanche tanto velata) dell’Istituzione religiosa come noi la conosciamo. Il Bene traslato e decaduto è oramai una lontana parodia del principio esasperato dell’assoluta dedizione ad un credo, i cui corrotti depositari della legge divina, una volta indefessi sessuofobici incalliti ed ora pedofili passionali e devoti satanisti,(6) esprimono la propria povertà morale rappresentata da una perdizione nella caducità della Dea carne, espressa da liberatori ed ineluttabili onanismi solipsistici.(7) Pittura della religione infernale, raffigurazione della perversa devozione clericale, incarnazione del caos irrazionale di un ultraterreno demoniaco ci fanno scrivere, con le parole di Huysmans che “i satanisti sono mistici a livello immondo, ma sempre mistici”.

La decadenza dei protagonisti, la loro espressione di un incontrovertibile, esasperato ed ossessionante nichilismo, marciano solenni ed austeri in un misticismo corrotto e simbiotico con l’autore, votato all’obbedienza dell’oblio e della terrena dissoluzione umana.

NOTE

1) Il Corpus Hypercubicus di Dalì tra due fuochi

2) Bondage Iubilaeum II

3) Le armi reciproche

4) Freaks Beauty

5) Carnevale o L’avvento della Grande Bestia

6) Trittico della Messa Nera

7) Snuff I e Snuff II

 

Francesco Barresi

Roma, 2002

 

Testo critico tratto dal catalogo “Teologia della perdizione”

Orvieto (TR) Chiostro di San Giovanni, 2002

 

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La decadenza della civiltà moderna

   di Anna Rita Daqua

 

L'associazione culturale AllucinaNazione presenta le ultime opere di Valerio de Filippis, il cui lavoro è frutto di anni di attenta ricerca su quelle che sono le aberrazioni e deviazioni della società moderna. La sua arte è tenebrosa e perversa, surreale ed estrema, come se volesse esplicare in tutti i sensi la realtà che si nasconde nell'alter ego dell'uomo. La produzione pittorica di de Filippis investe lo spettatore attraverso nuances fredde, agghiaccianti, dure, così come dura e disperata è l'autoanalisi che l'uomo compie su se stesso. Autore di opere di grande impatto visivo, che colpiscono al primo sguardo, con amore o con odio, ma mai con indifferenza, de Filippis è un autore moderno e accorto che attraverso un disegno plastico e una linea nervosa si fa manifesto di un'epoca. La sua è un'arte morbosa, che si nutre di incubi e di una tavolozza di neri e rossi in cui la luce non si presenta mai per illuminare ed avvolgere atmosfere calde ma anzi a freddare la scena, quasi a volerla congelare nella mente dello spettatore. Ineguagliabile nel rappresentare il fascino perverso della violenza e gli uomini che, come ciechi, vagano alla ricerca di una bellezza che non sanno identificare, in un mondo nel quale gli egoismi impediscono di comunicare e le tecnologie, come internet, spezzettano ulteriormente fra gli uomini un linguaggio negato.

Ho voluto presentare così questo artista, ispirandomi a brani tratti dalla critica e, come Presidente dell'associazione che ne promuove la mostra, invito a guardare in profondità e con occhio attento le opere di de Filippis ed ogni singolo scenario, sui problemi e sulle tematiche dell'uomo contemporaneo, al fine di riportare la funzione dell'arte a quella della riflessione.

 

Anna Rita Daqua

Roma, 2002

 

Testo critico tratto dal catalogo “Teologia della perdizione”

Orvieto (TR) Chiostro di San Giovanni, 2002

 

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S/M Racconti di un io smembrato

   di Tania Giuga

Dalla foglia d’oro alla vernice, dall’acido ai polpastrelli, dal pennello alla carne, dalla polvere di marmo all’acrilico.

Ora, questo incappucciato d(io) delle voglie di Valerio de Filippis, risana il triste destino dell’io infranto, cauterizza e agglutina i frammenti delle sue vagheggiate vicende attraversando l’ostentato disfacimento della trasgressione carnale.

S

La pittura può darsi (dare se stessa) - aggiungere a chi la guarda – l’integrità della memoria collettiva. Ma questa memoria non contempla necessariamente una traduzione in racconto prosastico, non consta di una successiva partizione in capitoli e paragrafi collegati da una ragione poetico-logica e discorsiva; si propone tutta insieme come intuizione Bergsoniana; verifica in un attimo un’intera galassia di passati, presenti, futuri.

L’elemento di continuità dovrebbe essere organizzato attorno allo "spavento" (Fear), al timore/tremore che trovarsi al mondo, nel tempo, equivale a esserne potenzialmente espulsi in ogni momento. Dunque la tortura dell’io, il suo involontario smembramento trasposto in alchimia dei materiali è dis(soluzione) – cupio dissolvi –, estasi anoressica o sovrabbondanza bulimica di dettagli e rumori di fondo, ma anche tranquillità nichilistica. Se siamo immersi nell’attualità dell’istante, quel nulla che diverremo può essere sfiorato da una vertigine, da una riappropriazione embrionale del nostro stato pristino. La paura, per distrarsi, cerca e trova nomi alle cose (S/M, slave&master, schiavo/padrone, ruoli definiti) e ci interroga sull’esibizione di uno statuto di verità che espresso in modo creativo diventa liberatorio, non più spaventoso (Fearful).

M

Emeth era la sigla che trascritta sulla fronte del Golem, il gigante di fango caro alla tradizione ebraica, permetteva ad esso di animarsi. La cancellazione del prefisso "E" lasciava la parola Meth (moribondo) che dava facoltà al signore del Golem di stabilirne la morte. Se "arte" ha a che fare con "artificio", dunque finzione ma anche esecuzione di un manufatto attraverso la manipolazione di materiali eterogenei, individui che a seconda delle stime relative all’utilità e alla scala di priorità dei valori propri di un sistema sociale sarebbero stati stigmatizzati come artisti, saturnini o portatori di aberrazioni, invece che affondare in una privata quanto silenziosa nevrosi, raggiungono la trasparenza del messaggero, del padrone del proprio e talvolta dell’altrui destino (un Golem metaforico?). Costoro imbastiscono per i loro simili lo specchio rovesciato del non detto per chiarirne i contenuti psichici segreti, creano il Golem (le opere, i manufatti…) che non perirà a comando, perché se pur plasmato per e dall’uomo, possiede un’autonomia superflua in quanto all’uso eppur necessaria per la recherche che ognuno è chiamato a compiere dentro sé, ricerca che sopravvivrà indomitamente alla volontà di assoggettamento del suo creatore, alla pervasività del suo super io.

Tania Giuga

Bologna, 2003

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Eros e primordio al tempo dei mutanti

   di Felice Cervino

E’ sempre l’umana carne, dannatamente battuta da tutti gli oltraggi, ad essere violata ed immolata: decade tra violenza e godimento ed è sempre l’antica brama del potere a determinare le distanze tra le invenzioni delle colpe, giustificative delle punizioni, e le esorbitanze delle pene: i dannati sono esclusi dalla pietà, se è divina sentenza quella che condanna al dolore infinito. Ricordate il compiacimento di Virgilio quando Dante per essere in perfetta sintonia con il crudo/giusto volere divino maledice Filippo Argenti nel canto VIII dell’Inferno e disprezza il suo pianto? “Benedetta tua madre che ti ha partorito” sentenzia la saggia guida e, con il pellegrino che si fa vanto d’averlo avuto per maestro e autore, si compiace dello strazio che il misero dannato subisce ad opera degli altri infelici come lui. Costretto a sfogare l’ira rabbiosa su sé stesso: “...In se medesimo si volvea coi denti”. Valerio de Filippis è attento all’infernale condizione dell’umana carne, dannata negli accessi delle rinunce e in quella dei sensi sfrenati, esorbitati dai freni convenzionali e pertanto più sintonici all’esempio di natura che libera le sue energie. Travolge così, con l’impeto del caos la lunga fatica delle terrene cose che mirano, nel tempo che le consuma, a farsi cosmo: i faticosi equilibri sono spazzati via. Nulla quindi è più precario della condizione che ha senso nell’armonia. E’ superfluo soffermarsi sui naturali eventi che dominano la scena del mondo: le esorbitanze della viva carne che travolgono vittime e carnefici, riutilizzano il mito eterno del caos che deride gli equilibri e le armonie, gode del puro istinto, a immagine e somiglianza di natura, giustifica il transito vitale.  Con la sapienza delle sue tecniche, del cromatismo adeguato, delle forme all’evidenza censiva nell’azione coinvolgente, l’artista trasferisce nel suo immaginario, e lo fa con propositivo coraggio, abbattendo nei suoi percorsi l’acquiescenza delle convenzioni, fasi salienti della storia umana. Conferma dunque che l’ordine deriva dal caos, evidenziando proprio la supremazia della memoria del primordio che vince le strategie tecnologico - progressive nelle umane sorti. Insorgono nei tempi in successioni disastri evoluti in violenze: coinvolgono spazi sempre più vasti, vanificando argini e ripari. Da quando gli uomini inventarono gli dei e alla loro onnivora violenza vennero via via sostituendo sempre più umane qualità, è stata sempre la loro carne ad essere immolata. L’età degli eroi non è mai stata immune da stragi e disastri: il mare della ferocia è stato sempre vasto di sangue umano in tempesta.

L’età degli uomini ha arricchito di vittime la terra desolata e quando l’uomo si è sostituito alla natura e si è trovato di fronte solo a se stesso, lo sforzo d’essere artefici d’umanità ha visto in caotica mescolanza, in disastri incoercibili, altre vittime e carnefici ai punti di non ritorno, alle svolte epocali in cui le vesti e le maschere non sono valse a garantire all’esorbitanza del potere economico il dominio che appaga i desideri più arditi. Umana carne, dunque, per crocifissione, stupri, disastri, smembramenti, piaceri da guardoni che godono dell’altrui sadico godimento, della promiscuità che si esaspera ai limiti dell’ambiguo proprio nel tempo dei mutanti, il cui corpo è dominato dalle protesi, dai meccanismi che rispondono alle esigenze della cibernetica, della clonazione, dei sistemi d’allarme ricchi, più di Briareo, d’occhi artificiali. E’ sempre la macchina umana, ma quanto, a diventare proiezione, oggettivazione, immagine e somiglianza del genericamente umano. Morto l’uomo sociale, la società, e divinizzata l’evoluzione dell’ingegneria cibernetica, vige l’isomorfismo tra meccanismi ben ingranati, e l’uomo, tra cervello umano e sistema elettronico, fantascienza e fantapolitica; il servo-meccanismo è condanna all’entropia: la sorte si rinnova in vesti evolute dalla natura all’uomo, alla macchina che elabora dati in riduzione del cosmo, con umani residui, in sistemi cibernetici. Allora ecco i disastri, gli scontri frontali, gli eccidi, le deflagrazioni, le macchine perfette che trapassano i loro guardiani tra smembramenti che rivelano terrestri-extra-ragioni-della-terra, mani prensili colme d’orrore, mutilazioni che sommano meccanismi biologici all’indistinto umano che saluta i novelli androgini con mammelle al silicone e sessi intercambiabili, magari con rapidi scatti e innesti a baionetta, proprio come si fa per gli obiettivi delle macchine fotografiche, o meglio si faceva ieri, un millennio fa. Eppure nonostante tutto l’antica brama persiste tra bagliori di morte, vampe a gara d’eruzioni vulcaniche, esplosioni che fondono ghiacci e deridono il sole per titanici abbagli.

Felice Cervino

Napoli, 2006 (tratto dalla rivista d’arte  V.O.G.U.T. 5  n° 1 - 2006)

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METAMORFOSI DELLA PERCEZIONE

   di Lorenzo Canova

 

Di fronte alla banalità crescente e al caotico affollamento delle immagini mediatiche, davanti all’intricato labirinto generato dal disordine del mondo, ci si chiede sempre più spesso se le arti visive possano ancora avere un ruolo di indirizzo, di selezione e di raffinamento dei nostri, spesso troppo confusi, stimoli percettivi e della nostra vita sensoriale.

L’arte negli ultimi cento anni si è posta spesso di fronte a questo problema fondamentale, che ha avuto una parte importante nella grande speranza delle avanguardie storiche di trasformare la vita e il mondo secondo i loro canoni estetici. Non a caso, per esempio, il Futurismo ha cercato un coinvolgimento diretto e consapevole con i mass media e un loro rinnovamento, com’è successo con la radio rimodellata dalla visione profetica di Marinetti, senza trascurare l’apertura definitiva ad una dimensione polisensoriale da cui sono scaturite le basilari e feconde teorizzazioni e sperimentazioni sul tattilismo e sul polimaterismo che hanno avuto un ruolo centrale nella storia dell’arte del Novecento. Analogamente, anche la videoarte ai suoi primordi era concepita perlopiù come una critica e una risposta possibile a quella che gli artisti consideravano la pericolosa mediocrità del medium televisivo, senza dimenticare poi il rapporto complesso e dialettico della Pop art con il mondo delle merci e della comunicazione massificata giunto a influenzare anche il linguaggio pubblicitario da cui inizialmente aveva esplicitamente ripreso immagini, stimoli e suggerimenti.

Su questo filone si è del resto mossa una parte significativa dell’arte attuale, attenta alla contaminazione con i media e a una loro possibile rivisitazione critica ottenuta anche grazie alla sua differente temporalità e alla sua più meditata dimensione esecutiva che permette una riflessione approfondita che si lega alle ricerche più avanzate nel campo della pittura, della scultura e dell’installazione, della fotografia, del video e del digitale con le loro indagini che analizzano e rileggono la stratificata e contraddittoria realtà delle immagini contemporanee.

Questa volontà e questa tensione contengono forse una residua e vitale particella di quella componente utopica e costruttiva che ha animato i movimenti di avanguardia del Ventesimo secolo, un frammento di quella volontà che affidava all’arte il compito di cambiare il mondo e di trasformare in meglio la vita degli uomini, di costruire opere, case e città seguendo un progetto radicale e onnicomprensivo di metamorfosi totale.

Questa mostra intende così seguire questo difficile sentiero, creare una sorta di viaggio sensoriale ed emozionale di sublimazione in cui le opere entrano in un preciso e forte rapporto con un allestimento ideato per dialogare con l’architettura e la città, con quella dimensione metropolitana che rappresenta non a caso lo scenario centrale delle relazioni culturali ed esistenziali del presente interpretato dagli artisti con gli strumenti affilati di una visione che riesce a essere critica senza perdere la qualità e il senso della sua rappresentazione.

Gli artisti che partecipano a questa esposizione riflettono quindi sulla violenza e sulla bellezza, sulla leggerezza e sulla devastazione, sulla perdita di senso dei simboli e sulla loro rinascita all’interno dell’opera d’arte, in un progetto dove proprio l’allestimento recita un ruolo fondamentale e dove le opere degli autori si uniscono (anche grazie a un video chiarificatore di Alfonso Spezza) in un percorso che intende portare lo spettatore alla perdita delle sue sicurezze, trascinarlo in una situazione di incertezza e di spiazzamento, fino a condurlo a una trasfigurazione della sua visione e della sua sensorialità, spingendo il suo sguardo verso un rinnovamento radicale indotto dalla forza dell’esperienza estetica.

Le immagini di lotta e di fisicità si uniscono pertanto a trame di millenaria levità ornamentale, i detriti lasciati dal crollo definitivo dei nostri convincimenti si uniscono alle parole di una poesia che dialoga con la vanità emblematica e mortale del fumo, i corpi si disfano nel sudore e si smaterializzano nella luce per comporre l’armonia dissonante di questo cammino di perdita e di mutazione tracciato grazie alla presenza rigeneratrice delle opere d’arte.

Valerio de Filippis medita su un mondo segnato dalle schegge e dai detriti di una distruzione in corso dove la morte e lo splendore si incontrano in un rapporto dialettico che trova le sue ragioni ultime nella consapevolezza allucinata di un prossimo e definitivo annullamento.

Le fattezze dell’artista compaiono nel tessuto fluido del colore che scorre sui frammenti dove le immagini sembrano ricomporsi dopo la loro stessa scomparsa donando un nuovo significato alla presenza fisica del corpo dell’autore che riemerge dal magma di un plasma vitale divenuto territorio di una riflessione sulla vita e sulle cose.

La riflessione esistenziale si trasforma dunque nel motivo che unisce le diverse esperienze dell’artista, i suoi linguaggi espressivi differenti e allo stesso tempo unitari, riempie di significato l’annientamento di una stanza occupata da macerie dove i brandelli di immagine alludono al ritrovamento e alla perdita dell’essere e del suo senso.

L’artista ci ricorda dunque la presenza incombente della fine, annunciata anche nei pacchetti di sigarette che, con un messaggio non distante da quello delle antiche nature morte, aumentano il piacere della loro fruizione grazie al pericolo annunciato nella loro veste colorata e reso ancora più penetrante dalle bellezza delle frasi dei poeti che De Filippis usa per comporre i messaggi che ricordano e celebrano la presenza della morte celata nel piacere affidato alla sostanza effimera, corrosiva e simbolica del fumo.

Lorenzo Canova

Roma, 2007

Testo critico tratto dal catalogo SENSIA (edizioni LAYOUT, Roma, 2007)

Sensia, Castello colonna, Genazzano (RM)  - Anno 2007

 

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Dal reale all’immaginario

I poeti del sogno

   di Paolo Levi

Valerio de Filippis ha una drammaticità di fondo che sarebbe piaciuta al critico Giovanni Testori. Le sue radici, infatti, affondano nell’Espressionismo esistenziale, con richiami all’espressività barocca. Pittore di pathos e di sofferenza, le sue immagini si presentano come apparizioni polimorfe; sono presenze sospese che ci turbano e che sfuggono alla ragione. Entrare nei suoi quadri è come aggirarsi in un paesaggio umano continuamente mutevole, accogliendo un messaggio di solitudine.

Testo critico tratto dal “Catalogo dell’Arte Moderna- Gli artisti italiani dal primo Novecento ad oggi” N.43  Editoriale Giorgio Mondadori- Milano, 2007

Paolo Levi

Milano, 2007

 

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Il chirurgo di guerra

   di Giovanni Monti

 

“Quello era il mondo, il grande mondo umano che non c’è più.

Sparito come Urano, come Saturno, come i giganti e gli dei mitologici, come i centauri e le sirene.

Ne restano i simulacri, esseri umani finti ma condannati a credere che esista ancora.

Sorpresi dall’avvento delle stelle fredde, inaspriti dal gelo

in cui stanno morendo i loro ultimi avanzi.”

 

                                                                                                                                                       G.Piovene

 

Gli uomini non smettono di scegliere la guerra, non si accorgono che la guerra diventa sempre più totale, probabilmente finale.

Non ci sono neppure più feriti, nessun possibile sopravvissuto; allora Valerio, il pittore chirurgico, si inventa un’altra missione: scoprire ciò che di umano ancora emerge dal caos, resti smembrati, bruciati, mutilati e persino deturpati da imprevedibili mutazioni (1).

Una ricerca disperata, forse vana eppure ostinata, la pervicace volontà di restituire una testimonianza, la possibilità per l’uomo di scegliere altro, assecondare la natura, ascoltare la carne, proteggere la vita.

Per fare questo Valerio de Filippis esplora campi di battaglia ancora velati dal sudario del fumo, dalla cappa greve delle radiazioni, attraversa sconfinate desolazioni post nucleari e ce le racconta senza infingimenti, in tutta la loro solenne mostruosità.

Ma rinvenendo una reliquia umana sporca di terra, tatuata da grumi e rivoli di materia organica, sa offrirla al nostro stupore come in un’ostensione, per celebrare un grande mistero: come la sacralità dell’uomo possa sopravvivere alla sua stessa follia.

(1)   Perspective (2004)

 

Giovani Monti

Bologna, 2007

 

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PRS TRC: Preistorico splendore

    di Livia Bidoli

Primitivamente istoriati, i corpi dei guerrieri di de Filippis si muovono attraverso flessuosità plastiche in universi di disincanto esponenziale. Paradisi d’inferno fantascientifico delineano narrazioni sincopate in sincronia con il tenero livore di alcuni tratti, dipinti dalle lucide spanne di touches de couleurs vibranti sul rosso e sull’argento. Ancora, sulle braccia, quasi trattenute nell’impervio sostare della tensione muscolare, si innestano vene appena sollecitate, invariabilmente mobili nel loro peregrinare tra fatiche umane e d’interiore ed eroica purezza. I guerrieri tacciono, immersi nella plasticità desueta di un turbinoso vigore, accogliendo forzatamente tattili metafore di un luogo dell’altrove. Sembra quasi di udire il tragico canto del pittore attraverso di loro, come asseriva Kafka a proposito delle sue silenti sirene, scrivendo a Milena: ”Cerco sempre e ancora di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa d’inspiegabile, di raccontare qualcosa che ho nelle ossa e di cui soltanto in queste ossa si può fare esperienza”(1).

L’altrove rimosso determina la pittura rutilante di de Filippis conducendo in uno spazio simile ad un’intercapedine dalla quale finalmente si possano percepire i sussurri del risveglio da un canto reso muto in un passato remotissimo. Il superamento agognato, stremato sulla soglia di una tenebra accentuatamente divelta dagli sprazzi di colore che come tagli infliggono ferite sul legno, è sempre una lotta che nelle parole di Bataille trova la sua dimensione descrittiva: “L’essere raggiunge il fulgore accecante nell’annientamento tragico”(2). L’apoteosi di questo movimento acceca per il furore espressionista proprio nelle gambe sezionate di “Il giocattolaio”, emblema stesso della frantumazione dell’io in un mito, il cui passo scorre aldilà del tempo in cui gli è stato concesso di nascere. Un Dio disperso tra la polvere, i cui granelli microscopici derivano da parti fratturate nel momento stesso dell’impetuoso slancio. Un gesto disperatamente nichilista come afferma di nuovo Bataille: ”Il nulla stesso è il suo giocattolo: non vi si inabissa che per lacerarlo e illuminarne la notte al quale non sarebbe mai pervenuto se questo nulla non si aprisse totalmente sotto i suoi piedi”(3).

La fiamma della candela sul capo dell’ultimo quadro, “Accidia”, appena terminato, non è che il simbolo di un fuoco desto, nonostante questo annientamento, in tutti gli sprazzi incrinati della pittura, in tutti gli acerbi spruzzi di matrice rubino, una circolazione vitale che ha il sangue come suo memento fulminante e fondante. Il teschio rosso di “The Circle” non fa che reiterare una ricerca di ubiquità nell’animo, quasi a lacerare quelle barriere che non permettono di trasferirsi in luoghi appena immaginati. La forza sovrumana dell’evocazione non fa che richiamare l’attenzione su un atto doppiamente leggibile, sia nel senso di annichilimento sia come correlativo oggettivo di un magma folgorante sul punto di esplodere.

Ed allora ci si accorge che il viaggio di Ulisse è ancora di là da venire, il Ciclope come le sirene lo attraggono in absentia, come se il vero viaggiatore non fosse lì, direttamente nel quadro, ma da qualche parte, ai lati, ad osservare qualcosa che accade unicamente perché il pittore vi si è tramutato, essenza stessa e raffigurazione, forse qui, forse altrove. Azionando ex novo i meccanismi che irrompono sul legno dipinto, incidendo pensieri in volo rapido, in traiettorie obnubilanti che, spargendo autentiche grida d’amianto, irrigano con gli elementi puri le cromie variabili di un viaggio. Nelle viscere di un mondo capovolto, ove le stesse emozioni si fanno corpi assoluti, un brillare verde-dorato di un mago o forse di un iniziato, “PRSTRC”, raggomitolato con il braccio e la mano tesa (come tutti i corpi dipinti nei quadri) a mostrare un ciondolo con un cerchio ed un drago, un anello dei Nibelunghi in tutta certezza conquistato. A questo punto i guerrieri lamentano con le stesse parole di Frika dal II° atto di La Valchiria di Richard Wagner: “Con misterioso senso/ mi vuoi illudere:/ che di eroico dovrebbero/ gli eroi mai operare,/ che fosse proibito ai loro dèi,/ il cui favore soltanto opera in loro?”(4)

 

·         Franz Kafka, Lettere a Milena, traduzione di Ervino Pocar, Oscar Mondadori 1979.

·         Georges Bataille, Il labirinto, traduzione di Sergio Finzi, SE, Milano, 2003, p. 24.

·         Ibid, p. 25.

·         Richard Wagner dal II atto di Die Walküre (stesura 1851-56, la prima teatrale il 26 giugno 1870) , traduzione di Guido Manacorda: “Mit tiefem Sinne/ willst du mich täuschen:/ was Hehres sollten/ Helden je wirken,/ das ihren Göttern wäre verwehrt,/ deren Gunst in ihnen nur wirkt?”.

Pubblicato in: GN1/ 3-17 novembre 2008  Titolo completo: PRS TRC - PREISTORICO

Domus Talenti, Roma, via delle Quattro Fontane, 113 -

Periodo: 17 - 30 settembre Anno: 2008

 

Livia Bidoli

Roma, 2008

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VALERIO DE FILIPPIS NELLE CAVITÁ DELL’ANIMO UMANO

VERSO L’ENTROPIA INCONSCIA: TRA PIANI INCLINATI

E CORPI DOLENTI

 

   di Nilla Zaira D’urso

 

 

 

Corpi che giacciono tra i detriti della psiche dolente che soffoca qualsiasi tentativo di liberazione dalla sofferenza. Sono i corpi che sembrano scivolare su piani inclinati verso gli accenti complessi del dolore. Come la Cavalcata delle Valchirie di Wagner, irruente e impetuosa, alla stessa maniera si presenta all’osservatore la pittura di Valerio de Filippis.

Una riflessione pittorica sull’inafferrabilità della materia psichica dolente, che svuota ogni membrana corporea e fa di essa materia inerme, incastrata dai vortici psichici.

Una pittura che segna trasfigurazioni inconsce che marcano i territori del corpo umano, a volte privo della testa (“The Circle”, “Burnt”, “Il giocattolaio”), ma innervato e teso come se un’ultima pulsione interiore volesse salvare ancora un anelito di speranza dalla profonda solitudine della psiche come in “The Circle”. Ma è un’illusione, forse.

Nella propria solitudine, nel continuum “gioco” della potenza della natura stessa, viene presentato l’essere umano.

La solitudine esclude la psiche da ogni contatto con il presente, con la vita. L’inconscio della materia corporea prende forma da una lotta, quasi una diatriba, tra la vita e la morte, tra un’illusione e la realtà, tra l’uomo e sé stesso, tra l’io e un super io.

Lo spettatore può constatare le titaniche e potenti macchie di colore, che svelano la materialità del legno che tutto contiene: il dolore, le urla silenti dell’essere umano, le paure, il dominio di una psiche afflitta, privata dall’entusiasmo di vivere.

L’idea concettuale della matrioska viene fuori da queste dodici tavole di legno che, come dei feretri, inglobano corpi, che contengono la psiche, che, a sua volta, svuota i propri dolori sul corpo umano stesso, il quale appartiene al più grande contenitore: il mondo dove tutto si miscela, si disfa e si disperde. La materia continua il suo viaggio. Eppure qualcosa rimane ancora nell’universo: un’entropia di sofferenza e resistenza allo stesso tempo. Sembra che un’entropia di patimenti sia rimasta ingabbiata nelle tavole di legno di de Filippis. L’entropia di un inconscio collettivo, come direbbe Carl Gustave Jung, che sottomette il corpo umano e tutti quei segnali, che rimandano all’attuale tecnologia informatica, anch’essi incorporati nei simboli nella dolente psiche umana e nella forza della natura che nulla risparmia.

L’essere umano diventa l’apparenza di un’apparizione. Apparizione di un meccanismo a cui l’uomo soggiace.

Così in “C18”, l’artista presenta l’uomo nel suo cercare di elevarsi oltre la dinamica di un macchinario.

Una ricerca di spiritualità che evade dai canali del corpo e lascia allo spettatore la sensazione di un richiamo a forze ancestrali, divine. Come una richiesta di aiuto, di salvezza.

La pittura di Valerio de Filippis sintetizza l’essenza catartica dell’arte ed è il pittore stesso a compiere il viaggio più difficile e tortuoso nelle cavità del proprio animo tra buio, paure, ombre, rabbia e sofferenza, dimostrando padronanza tecnica e talento artistico e creativo nel ritrarre la figura umana.

Vedere le opere di questo artista permette di capire quanto la complessità della psiche unisce tutti gli esseri umani in un mondo, quello attuale, che sembra indossare una mostruosa maschera che nasconde ogni differenza, ogni necessità, ogni virtù e fa dell’uomo una macchina priva di pensiero e psiche.

 

Testo critico relativo alla mostra “PRSTRC”

(anno 2009) presso lo spazio espositivo

Il Laboratorio, Roma

 

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PRS TRC

   di Cecilia Paolini

L'uomo, in quanto essere razionale, è in grado di provare dolore e piacere al di là della contingenza fisica, in una dimensione che è soltanto e profondamente esistenziale. Ma il “male di vivere”(1) è pura conseguenza della razionalità che distingue l'uomo da qualsiasi altra creatura: in un'età dell'oro immemorabile, vagheggiata già nella mitologica Arcadia(2) , la felicità era costituita dal connubio tra l'uomo e la Natura. Quello stato di grazia, ormai perduto, era dato da un'inconsapevole simpatia con l'eterno ciclo del mondo terreno. Con la razionalità, l'uomo ha perso la capacità dell'innocenza, per cui il dolore si è trasformato in angoscia esistenziale e il piacere è null'altro che mancanza di dolore, ossia un effimero inganno. Le “magnifiche sorti e progressive”(3)  hanno condannato l'umanità a un'ansia perenne, allontanandola dalla sua vera natura. Da questo stato non v'è alcuna via di fuga; la consapevolezza, però, può suggerire all'uomo l'unico comportamento degno per la sua esistenza: non combattere contro il dolore esistenziale ma viverlo profondamente con il coraggio e l'eroica rassegnazione di un Titano.  In PRS TRC, la condizione umana è rappresentata fin dal titolo, cifratura, privata delle vocali, della parola “preistorico”. Il soggetto, che fisicamente richiama agli eroi mitologici, è accucciato come a voler ritornare nella posizione fetale; dietro di lui un magma informe rappresenta tutto ciò a cui ha rinunciato: non a caso la definizione anatomica dell'uomo è massima verso gli arti inferiori, decisamente distaccati dal fondo, mentre si fa meno netta verso la testa, simbolicamente sede della razionalità. É dunque la rappresentazione di una nascita, molto più drammatica di quella biologica perché inizio della coscienza di sé: viene raffigurato il momento in cui l'uomo perde l'innocenza, si allontana dalla Natura ed è costretto a diventare l'eroe della propria sorte, ineluttabile e unica identità umana. “The Circle” è il contrappunto logico. L'anatomia eroica di memoria policletea(4)  è qui portata all'esasperazione, tanto che le membra sembrano disfarsi costrette a una tensione impossibile da sostenere. In questo caso il volto del soggetto non è rappresentato, non già perché si va definendo il processo di consapevolezza per la sorte umana; è piuttosto il momento finale di quel processo: nel momento in cui l'uomo riesce a intuire la conoscenza di se stesso, trasforma inesorabilmente la razionalità in pazzia. Il connubio con la Natura garantiva all'uomo primitivo l'inconsapevolezza per il più grande ignoto con cui l'umanità è costretta a confrontarsi: la morte. Aver abbandonato lo stato di natura, implica l'impossibilità di accettare con animo quieto la caducità della propria esistenza. Il terrificante “memento mori” simboleggiato dal teschio, è, nella costruzione dell'immagine, l'elemento focale verso cui l'occhio dell'osservatore è attratto. La vita umana è come il corpo rappresentato: non si può conoscere né la propria nascita, di cui non si hanno ricordi, né la propria fine. L'“oscillare impotente tra noia e dolore”(5) rappresenta tutto ciò che esiste tra l'inizio e la fine, ossia tutto ciò che di se stesso può conoscere l'uomo. Il riscatto da questa condizione è l'atteggiamento titanico dell'eroe che accetta incondizionatamente la propria sorte costruendo un destino che vada al di là della propria esistenza fisica. I due lavori di de Filippis hanno notevoli rimandi figurativi: la costruzione della luce di taglio che definisce la volumetria è senza dubbio derivata dallo studio degli scenari caravaggeschi. Il disfacimento del corpo umano, confuso in modo visibilmente compiaciuto in un miscuglio di colori scuri, che suggeriscono marcescenza, richiama alla memoria l'arte di Francis Bacon, anche se nelle opere di de Filippis la tematica dell'uomo-eroe impedisce una trattazione delle anatomie fortemente distorta come nel pittore irlandese. La scelta di lavorare per grandi dimensioni non è casuale: amplia il sentimento terrificante dello spettatore che, posto di fronte alla rappresentazione della propria identità umana, non può che prestare attenzione alla propria coscienza.

NOTE:

(1) La citazione è tratta dalla poesia “Spesso il male di vivere ho incontrato” di Eugenio Montale (dalla raccolta “Ossi di Seppia” del 1925). L'espressione, divenuta proverbiale, fa riferimento al malessere esistenziale connaturato alla vita. Nella poesia, Montale cita la “divina Indifferenza” come unico rimedio; in tal senso è particolarmente significativo il riferimento alla nuvola e al falco dell'ultimo verso, elementi della Natura che si elevano al di sopra delle miserie terrene: contro il male esistenziale, l'unico atteggiamento possibile dell'uomo è assumere una stoica indifferenza.

 (2)Non a caso l'Arcadia è il luogo abitato da Pan, dio immanente, spirito di tutte le creature, simbolo di una spiritualità che non si giustifica con la trascendenza, ma con un connubio intimo con il ciclo della Natura. L'uomo moderno ha imposto la sua superiorità nei confronti del resto del creato in nome della razionalità, ma è proprio in virtù di questo distacco che ha perso la felice innocenza del suo stato primitivo.

 (3)La citazione è tratta dalla poesia “La Ginestra, o fiore del deserto” di Giacomo Leopardi. Il poeta fa riferimento al concetto di sviluppo della scienza e della tecnica che sembra non avere limiti e soprattutto inganna l'uomo facendo vagheggiare la felicità nel progresso. Si tratta, però, di una evidente utopia: la ginestra, simbolo dell'umana condizione, contro la lava del Vesuvio, che costituisce il suo destino tragico, può solo coraggiosamente risorgere. Nella debolezza umana è insita la propria identità: la dignità dell'uomo è nell'accettazione della propria condizione rinunciando a qualsiasi velleità di supremazia contro le forze della natura.

 (4)Si confronti, a tal proposito, l'anatomia del soggetto di The Circle con il Diadumeno o il Discoforo di Policleto. Perfino la postura, leggermente tesa su un fianco, è un puntuale richiamo al ritmo scultoreo chiastico (ossia la costruzione anatomica basata sul preciso equilibrio tra flessioni e tensioni degli arti del corpo) teorizzato nel celebre “canone” dello scultore argolide.

(5)Si fa riferimento a una celebre frase di Arthur Schopenhauer per il quale la sofferenza umana è data dall'oggettivazione della volontà, per cui la liberazione dal dolore è data necessariamente dalla negazione del mondo fenomenico. É significativo considerare che il filosofo individua tre gradi per la liberazione dal male della volontà: il primo di questi gradi è costituito dall'Arte, ossia la contemplazione nel completo rapimento estatico. La contemplazione dell'arte, però, è un rimedio fugace, che deve essere seguito dalla Morale e dall'Ascesi (Arthur Schopenhauer, “Die Welt als Wille und Vorstellung” (Il Mondo come Volontà e Rappresentazione), 1819.

 

Cecilia Paolini

Roma, 2010

 

Testo critico tratto dal catalogo della mostra collettiva itinerante

“L’Aquila non si muove – L’immutabile identità di un popolo”, Roma, Palazzo Ferdinando di Savoia

(anno 2010)

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“L’EVOCAZIONE DELLA FIGURA”

   di Alessandro Ingafù del Monaco

Se assumiamo il “Postmodernismo” come paradigma descrittivo della nostra epoca, dobbiamo osservare come il sistema capitalistico maturo ha stravolto quelle categorie, quei concetti come quello di Arte, che ciascuno probabilmente presume di poter definire. In una società globale, decentralizzata, è davvero difficile trovare definizioni. Trovarle può voler dire cadere in una presa di posizione ideologica che pretenda di dare una natura a ciò che non la ha più. Le idee, le immagini, si sono svuotate di significato per colpa di una assuefazione alla dimensione mediatica, sono simulacri, rappresentazioni autoreferenziali che hanno perso di autenticità ma soprattutto di oggettività. Dunque, nulla può esser più fuorviante della pretesa di comunicare verità o di avere definizioni oggettive da appiccicare come etichette alle cose. Questo è un grande problema per l’Arte Contemporanea. Già nel XX, ma certamente nel XXI Secolo non è possibile definire l’Arte senza muoverle violenza, ciò da luogo ai tripli carpiati di un arte-artificio promossa dal Mercato, ma anche a realtà meno conosciute di grande valore.  Nel mondo delle immagini, la semplice rappresentazione si è svuotata di capacità comunicativa, non ha più la capacità di trasferire al fruitore la verità del rappresentato, ecco che entra in gioco la dimensione Evocativa, alla quale Valerio de Filippis si appella per aprire nuovi orizzonti per l’Arte del XXI Secolo. Questo straordinario Artista con una grande esperienza alle spalle ha rinunciato alla dimensione oggettiva-rappresentativa per dare spazio a quella della Recherche nel senso più puro del termine, priva di inutili sofismi  e intessuta di quel “di più” che apre la dimensione spirituale, che rende la sua opera autentica e che trascende quel confine obnubilato tra cosa e Opera d’Arte. Valerio de Filippis è un innovatore: sono ormai cinque anni che sperimenta una complessa tecnica (che l’autore ancora non svela) della quale gli va riconosciuta la paternità. Grazie a questa nuova tecnica, che consiste nel versare su una tavola di legno posata orizzontalmente colore fluido, l’Artista strappa dall’astrazione liquida di questa materia i chiari e gli oscuri che mai rappresentano ma che evocano la figura. Valerio ricerca quel folle obbiettivo che gli permetta di superare il confine tra astratto e figurativo attraverso una evocazione apparentemente involontaria. La dimensione evocativa è fondamentale e capace di disegnare una nuova autenticità per l’Arte del XXI Secolo: in questa si ritrova l’assenza del discorso messaggero di verità. Nell’evocazione non c’è messaggio, non c’è verità, ma chiama ad “essere” forze sconosciute che trovano il loro contenuto di verità nel senso di alètheia nella quale, secondo Martin Heidegger, l’essere si ri-vela come un uscir fuori dall’oblio e dall’essere nascosto; e tuttavia il termine primo di questa resta pur sempre l'oblio, il ritrarsi dell'essere a ogni sua rappresentazione nell'ente. Stiamo parlando di un’incoscienza che diviene coscienza nella disposizione degli elementi formali, che donano l’alètheia e il contenuto non a livello discorsivo, a livello di logos, ma esclusivamente a livello di Forma. Stiamo parlando di un’Arte priva di definizioni ma non priva di contenuto. Stiamo parlando di un contenuto “dialettico”, che non pretende di annunciare nessuna verità ma che si denuncia come menzogna e che racchiude nei suoi sedimenti la Storia e il Tempo, un contenuto profondo e attuale che non è leggibile ma solo interpretabile. L’Opera di Valerio de Filippis ha una forte rilevanza individuale: emerge un grido, di dolore o di piacere non importa, con un grande valore catartico che trova nutrimento in un inconscio ricco di sedimenti che scalpita per emergere. Una dimensione Dionisiaca che è al contempo fuga e ritorno, e che testimonia nell’opera l’errare dell’Artista. Per Valerio de Filippis l’Arte assume le sembianze della necessità ineludibile, è chiamato a fare per la sua naturale capacità catalizzatrice e di sintesi degli spazi che abita. E’ l’Uomo l’oggetto della sua ricerca. Un uomo collocato in una dimensione scomoda in cui la dissonanza della contingenza si concretizza in flutti di colori irrazionalizzabili. Nelle sue opere non c’è distrazione, armonia, tantomeno una bellezza bugiarda. Troviamo piuttosto temporalità, corruzione, deformazione; echeggia il senso d’inquietudine che è quella dell’Artista e quella del momento storico. Un Presente non bello e dal quale la bellezza potrebbe solo allontanarci in un errare idealistico. La decostruzione dei soggetti è la stessa della decostruzione dell’individuo, una astrazione della soggettività perpetuata colpevolmente dalla disumanizzazione del nostro Tempo. Ecco che dalla dimensione individuale, l’Opera di Valerio de Filippis acquisisce una rilevanza sociale che ci impone degli interrogativi che non ci ha chiesto. Il brutto, l’irrazionalità dell’esistente, l’assenza del senso non detta ma avvertita come necessità dal fruitore che, criticamente interpreta i significati sempre nuovi che nascono dalla vita interna all’Opera. In questo senso, le immagini di Valerio de Filippis non sono riproduttive ma produttive, cioè prendono dal loro interno quella dialettica con il loro esterno che le fa essere nel mondo e mai astratte da questo. Nonostante ciò l’Artista attraversa dimensioni altre dal mondo che ci rimandano a quell’interrogativo mai detto al quale dobbiamo, per necessità, rispondere. Questa risposta dolorosa evoca quel rapporto con il contingente, col nostro Tempo che disvela la necessità di una trascendenza ora impossibile ma che l’Arte evoca. Senza darci la soluzione, senza essere portatrice di verità, l’Arte di Valerio de Filippis ci spinge a ricercare risposte in una chiave diversa da quella che abbiamo sempre considerato.  Non è facile racchiudere tra la circostanzialità delle parole un contenuto non dicibile ma presente. Le Opere di Valerio de Filippis sono di grande qualità, lo stile ha superato la tecnica che rimane comunque veicolo della composizione formale. In opere come “Figura” oppure “Figura 1” vediamo l’Artista che cerca di controllare la forza incontrollabile di un colore che si espande. Questo fiume di pigmento trova il proprio canale nella composizione volumetrica di corpi adombrati e alieni. Schizzi, impurità, corruzioni del colore che non rappresentano mai un compiacimento narcisistico ma piuttosto un’esigenza che non può essere detta ma solo vissuta.  Opere come “Burnt” racchiudono consapevolezze ed essenze della caducità, della finitezza che solo l’Arte sembra farci accettare. Ancora in “Flames/Darkness” troviamo la casualità causata dall’Artista e il richiamo a uno sporco del vivere che ci rimanda alle sovrastrutture costruite nella Storia ma anche alla crudeltà dell’essenziale. Valerio de Filippis è un’Artista capace di attraversare gli orizzonti della crudeltà e del non senso, le sue opere non sono solo il parto di un idealizzato inconscio d’artista, in parte da questo traggono alimento, ma è il sentimento della vita e per la finitezza, che si concretizza grazie alla riflessione critica e intellettuale, che manifesta contenuti senza dirli ma testimoniandoli, privi di verità ma con un contenuto di verità intrinseca agli elementi sensibili dell’Opera. Valerio de Filippis evoca una verità come alètheia che, se per un verso si disvela, per l’altro rimane sempre in qualche misura in sé stessa, in sospensione, e che solo una fruizione critica che non è mera contemplazione può interpretare. Dai grandi schermi sui quali gli artisti venduti dal Mercato, trovano spazio e fortuna rinunciando alla critica a causa di una presa di posizione ideologica, sprofondiamo tra le strade popolari di una grande città come Roma, nella quale il Maestro de Filippis vive la sua Opera e disvela nuovi orizzonti per un’Arte senza definizione ma sempre viva e figlia del Terzo Millennio.

 

 Alessandro Ingafù Del Monaco

 Roma, 2010

 

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La Grande Seduttrice

   di Cecilia Paolini

La collezione scelta per questa mostra esemplifica in dodici opere uno tra i più importanti valori dell’arte di Valerio de Filippis. L’uomo, da quando ha coscienza, combatte contro se stesso una guerra di sfinimento: la razionale socialità lo spinge all’accettazione passiva di qualsiasi inganno, è lo spirito apollineo che tenta di interpretare la realtà secondo logiche semplici; d’altra parte, però, esiste una componente dell’animo umano più tenace, che non ha paura del libero pensiero, che si nutre di esaltazione per l’irrazionale e non si nasconde nell’uniformazione sociale per quietare la paura della solitudine, ma anzi reagisce con coraggio all’eventualità di rimanere unica. Artatamente, la Storia ha interpretato la razionalità come la principale delle peculiarità umane, mentre è solo un palliativo per tenere per forza a bada la componente bestiale dell’uomo. La via per abbandonare lo stato ferino è piuttosto perseguire l’irrazionalità trasformandola in potenza creativa, unica e vera caratteristica che contraddistingue l’essenza umana. La sindrome bipolare che attanaglia l’uomo, combattuto tra razionale rassegnazione e cosciente creatività, può essere risolta attraverso l’Arte, la Grande Seduttrice che libera l’uomo dall’opprimente convenzione del razionale. Le dodici opere scelte in questa collezione mostrano il percorso individualistico, fin “troppo umano” della ricerca pittorica di Valerio de Filippis: la versione visibile, talora talmente terrifica da non lasciare spazio a una compiacente pietà per chi sceglie la tranquilla soluzione di una rassegnata razionalità massificata, è solo l’ultimo atto di un esercizio spirituale ben più profondo, messo in atto dall’esaltazione della fatica fisica per dare sfogo alla pura immaginazione. Se si dovesse tracciare, dunque, un percorso verso la perfetta sintonia con l’irrazionalità, ovvero la potenza creativa, questa collezione dovrebbe essere narrata dalla serie PRS TRC: è la condizione umana, ancestrale e preistorica (parola di cui il titolo è semplicemente la versione devocalizzata), che porta in sé la tensione al dinamismo, alla “volontà di potenza” che è vita stessa. La progressiva coscienza di sé porta l’uomo ad assurgersi a “Oltreuomo”, perfettamente consapevole del dinamismo caotico della realtà e della potenza creativa che lo contraddistingue: in questo senso “Sisyphus” e “The Circle” sono l’esemplificazione dello stato di coscienza. Si percepisce, però, un terzo stato, una condizione in cui la battaglia esistenziale è giunta alla fine e all’Oltreuomo si è sostituita una creatura nuova, che dell’uomo ha forse una vaga parvenza: “Tentativo di apparizione II” dimostra quanto l’uomo abbia bisogno della sua lotta atavica, di quella sindrome che lo fa oscillare tra razionale bestialità e divina potenza creativa, perché altrimenti è solo nichilismo inevitabile e distruttivo. Il valore seduttore e liberatorio dell’Arte è, infine, massimamente espresso in “Una Venere Occidentale II”, significativamente l’unica opera che ha per protagonista una donna: nella violenta presa di coscienza della propria irrazionalità l’uomo crede di possedere la propria potenza creativa, ma è inequivocabilmente e sempre solo l’Arte che permette all’uomo di essere libero. L’unica nota tecnica davvero importante da conoscere riflette il senso della ricerca figurativa: in molte delle opere in mostra, il lavoro dell’artista è dato dalla difficoltà di modellare materia informe non vincolandola attraverso una stesura pittorica razionale, ma lasciandola libera di espandersi in un supporto opportunamente preparato, modus operandi allegorico della potenza creativa lasciata libera da ogni vincolo di ingannevole razionalità.

Cecilia Paolini

Roma 2011

 

Testo critico tratto dal catalogo “La Grande Seduttrice”

Galleria d’arte “Arte e Valore”, Roma (a cura di Cecilia Paolini)

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SupeResistenze

   di Francesco Giulio Farachi

 

Cosa sono questi volti, questi corpi, queste pose e figure che si fondono e si confondono in un universo di caos nebuloso? Sono forse donne, uomini, o che altri, quelli che Valerio de Filippis ritrae?

No, queste esistenze sono oltre, sono al di sopra, sono appunto “super-esistenze”, fisionomie che esplodono i limiti delle carni e della pelle, sconfinamenti dall’oggettività del visibile, sono essenza e sostanza d’umanità e sono il suo demone, natura e oltre-natura, fisicità spirito e tormento. O sarebbe meglio dire che sono metamorfosi, trasmutazione che dalla materia si fa illusione (o no piuttosto il contrario?), un guardare mai colmo. Come quando vedi e non ti decidi a staccare gli occhi, perché sembra che ancora ci sia qualcosa, che qualcosa forse ti sfugge, che un significato ulteriore si celi intorno le pieghe fra colore e immagine, di nuovo un segno debba apparire.

La pittura stessa si perde e si complica, abbandona alla superficie il proprio statuto funzionale e formale, quello di ornamento e decoro puro, e si lancia al di là di un orizzonte che è solo spirituale, dove cioè il dato fisico esiste quasi esclusivamente come icona, come riflesso e deformazione sullo specchio corrusco della psiche. Dissonanze, contrasti, ma anche al contrario amalgami e contaminazioni, diluizioni e trapassi non sono perciò astratti aspetti visuali e la ricerca sul colore non si limita ad essere semplicemente ben indirizzata tecnica pittorica; ma con aspra assolutezza, tutto questo è atmosfera vitale e totalizzante, aria e ambiente, circostanza e situazione, trasposizione in luce/ombra di inquietudine esistenziale, un’inquietudine eccedente.

de Filippis lavora il visibile, ma pensando all’invisibile e quindi la luce che gl’interessa non illumina all’altezza del reale, ma si espande ai terreni della coscienza, alle sue vertiginose supremazie. de Filippis lascia liberi i colori delle emozioni e delle introspezioni, lascia che invadano e imbevano il sottostante reale, lascia che amplifichino e coniughino gli elementi fisici e le sembianze, ne rompano gli assetti, la continuità, la coerenza. Non c’è spazio ulteriore, l’esistenza al di sopra del quotidiano non ha margini per i ruoli e le apparenze. Lo vedete? Si parla di noi, di ognuno di noi. Perché ogni essere umano vive l’esistenza e sperimenta una “super-esistenza”, una dimensione e una coscienza di sé di cui solo chi le vive ha precisa percezione, che son nascoste agli occhi degli altri, che non si rivelano se non a tratti e con infingimenti; essenza che pure c’è, aleggia e padroneggia e guida tirannica feroce ogni minuto aspetto della vita e dell’esserci. Il pittore non cerca quindi un’ideale innocenza, “un fuor di luogo e di tempo” che sarebbe fantasia o chimera, ma mette di fronte a sé il “qui e ora” con tutto il suo affastellamento di esperienze, di dolore e gioia, di contraddizioni, di paure e utopie, di carichi emotivi e di ambiguità che fa densa l’esistenza, che la sovraccarica fino alla lacerante aggressività del vero.

A volte questo modo di dipingere sembra essere condotto deliberatamente come aperta sfida al perbenismo dei ben pensanti, unisce classicità di forme a un senso di moderna tragicità o di moderno cinismo, sfodera la violenza della bellezza. E’ un atto di ribellione, uno scuotimento delle coscienze, una “r-esistenza”. L’intimità dei corpi, quella dei momenti del chiuso di una disperazione, ha un che di sublime ed eroico, è come un’autoaffermazione contro il mondo esterno, le minacce e i condizionamenti; al tempo stesso è un’intimità che si costringe al confronto, che ristabilisce la continuità fra interiorità e realtà oggettiva, che fa della propria nudità e naturalezza il terreno comune riconoscibile per una rivendicazione di essenzialità e verità del mondo. L’arte è così un percorso di avvicinamento a sé, all’essere umano, e l’intensità con cui questo percorso viene programmato e realizzato si riversa, con la tensione proprio di una opposizione, sulla percettibile matericità del colore, nel predominio mai raggiunto dei toni, nella crudezza con cui i sentimenti solcano strati nel procedimento pittorico. L’immagine si costruisce con forza e con passione, la “super-esistenza” proprio come l’esistenza.

 

Francesco Giulio Farachi

Termoli (CB), 2013

                                                                                                                  

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Derive

   di Cecilia Paolini

Per non avere paura e affrontare una situazione di forte disagio, come la prigionia, i soldati catturati dal nemico si raccontano storie, la propria vita, o, in caso di isolamento, ricordano a se stessi episodi vissuti, intrecciando esperienza e invenzione. L’esercizio della memoria, l’atto di trasmettere a qualcun’ altro quanto osservato e appreso determina spesso la sopravvivenza, se si stabilisce quel filo continuo con qualcuno che capisce e perpetua la funzione del narrare, riversando a propria volta le parole di un’esperienza intima e personale. Come per la parola, sia scritta o detta, esiste un linguaggio, più universale, dato dalla sembianza. Esiste l’immagine di noi stessi che forzatamente vogliamo appaia, perfetta e piacente per il comune e contingente senso dell’estetica, ma la sembianza è la vera natura del nostro aspetto: l’evidenza delle imperfezioni congenite o del tempo, le trasformazioni che la vita ha apportato ai connotati, tutti quei piccoli o grandi segni che identificano l’essere come unico e per questo straordinario; a un occhio che sa ascoltare narrano la propria storia, questa sì perfetta in virtù dell’irripetibilità.

La vita, di per sé, obbliga all’atteggiamento eroico di porre la propria concentrazione sulla ricerca dell’autorealizzazione. L’uomo-eroe è colui che pone se stesso al centro di una sfera di influenza data per nascita a ogni essere umano, ma soltanto chi non ha paura di se stesso e delle proprie reazioni è capace di imporre la propria energia vitale in ogni azione che compia, modellando quella realtà che il destino gli ha posto dinanzi.

L’interpretazione del tema della mostra di de Filippis si origina da questa considerazione per cui il segno visibile nel corpo è simbolo delle battaglie, capitate o autoimposte, che l’uomo ha deciso di combattere con il coraggio tipico di chi non avrebbe avuto comunque altra scelta.

Tra i dipinti presentati in mostra, compaiono esempi da sempre compresi nell’iconografia eroistica: Saulo nell’atto dell’atto della sua caduta per via di una folgorazione che non avrebbe mai desiderato ma che accetta trasformando la sua intera esistenza tanto da divenire il più celebre tra i discepoli di Cristo;(1) Ettore, costretto a lasciare la giovane moglie per affrontare una guerra di cui non capisce il senso e dalla quale non farà ritorno; la stessa Andromaca, che pur sapendo dell’ineluttabilità della partenza del suo sposo guerriero l’implora con ferma dignità di non abbandonarla.(2)

Accanto a queste eterne figure, simboli della nostra cultura, rese nei dipinti di de Filippis con esaltante senso di umanità, si pone l’uomo comune, definibile così soltanto perché il proprio nome non compare nei racconti biblici o mitologici, ma la cui voce e imprese sono narrate dalla Storia dell’umanità e si vanno perpetrando dai secoli dei secoli con scenografie e dettagli sempre diversi.

In questo eterno e ricorsivo divenire, la Storia dimostra ogni volta il coraggio dell’essere umano nel non sottrarsi alla vita che gli si pone di fronte, scelta spinta a volte fino a un autolesionismo che ha il senso della libertà, il valore della conoscenza.

In questo senso la tecnica pittorica di de Filippis segue puntualmente il significato iconologico dell’uomo-eroe: le tavole presentate in mostra sono letteralmente istoriate, incise dal colore, completamente snaturate della loro superficie liscia per assumere sembianze multiformi, dalle increspature profonde e campiture sature; com’è, d’altra parte, non solo il corpo umano, ma la coscienza, scolpita da ciò che capita, ma ancor di più da quanto decidiamo che debba capitare.   

La riflessione sul senso del corpo come manifestazione dell’esperienza eroica umana ha decretato una ricerca espressiva nuova: non si tratta di una realizzazione asettica di uno studio sull’espressività umana, quanto piuttosto un umanismo interpretativo degli affetti e delle emozioni. Per la prima volta de Filippis palesa amore per il soggetto figurato, non più solo soggetto estetico, ma oggetto delle attenzioni esistenziali dell’autore.  Questo è un modus pingendi inedito per de Filippis: la scoperta della compassione per le umane vicende, di un umanismo che cerca innanzitutto comprensione.

 

(1)   Flames- Darkness IV (2012)

(2)   Ettore e Andromaca (2012)

 

 

Cecilia Paolini

Roma, 2013

 

Testo critico relativo alla mostra personale congiunta “Derive”

Luogo espositivo dell’Istituto Superiore Antincendi, Ministero degli Interni.

Anno 2013

 

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                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

UNA PRESENZA NASCOSTA

   di Claudio Abate

 

Non appena scoperta l’arte di Valerio de Filippis sono stato colto dalla curiosità di capire meglio quali idee e quali gesti avesse già prodotto la sua mano: una tela, che riempie di energia il mio laboratorio, mi ha sempre suggerito l’idea di conoscere più a fondo l’artista.

Una volta esplorata la sua pittura, ho sentito che avrei dovuto ospitare una mostra per capire davvero il suo mondo perché non mi sarebbero bastate le immagini, una visione non materica.

Ci sono artisti che parlano di sé, ce ne sono altri che raccontano più quello che accade fuori; de Filippis, a mio parere, percorre entrambe le dimensioni. Al limite di questi due spazi si pongono le mani dei suoi soggetti: un capolavoro di espressività attraverso il quale de Filippis squarcia il velo del disincanto per portare sulla scena la grazia e l’ossessione che comunicano i corpi.

Nel corso della mia carriera mi sono sempre fatto guidare dall’intuito e, devo dire, la maggior parte delle volte gli artisti che ho fotografato hanno rivelato il loro talento al pubblico e alla critica.

Anche stavolta seguo l’istinto e mi affido al linguaggio nuovo e senza tempo della pittura di Valerio de Filippis per comunicare un’idea di quanto sta accadendo nel panorama artistico contemporaneo.

Quella che vedrete allo Studio Abate non è una mostra che veicola messaggi di facile comprensione o dove sia sufficiente uno sguardo distratto o svagato; è un’esposizione di immagini pittoriche che contengono emozioni stratificate e sempre vive nei sentimenti che esprimono e nell’immaginario nel quale si vengono a depositare.

 

Claudio Abate

Roma, 2014

 

Testo critico tratto dal catalogo “Il male oscuro della pittura” Roma, 2014

Roma, Studio Abate - a cura di Duccio Trombadori, anno 2014

 

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IL MALE OSCURO DELLA PITTURA

  di Duccio Trombadori

 

Valerio de Filippis vuole dipingere il male di vivere con intensità gestuale e sprezzo dichiarato delle buone maniere.

Non c'è nulla di artificiale o di artefatto nella sua immagine compiuta. Egli descrive il furore della vita sotto varie forme del simbolo o dell'allegoria. E sembra quasi cercare l'effetto sgradevole dei contrasti di forma, luce ed ombra, quando la materia cromatica gli prende la mano e impone il suo magma.

Come presa da 'male oscuro' la pittura crea e mangia la forma, si afferma come potenza autonoma attraverso lampi di luce sulfurea ed emerge come sostanza incandescente dal vulcano della energia espressiva.

Siamo in presenza di un immaginario scelto in simultanea con l'azione pittorica. Ogni resa visiva ci appare lacera e quasi indistinta, come uno sporadico 'flash' scattato su un paesaggio dai contorti inusitati che sembra alludere alla condizione 'infernale' in cui versa l'elemento umano.

Uomini, anni e vita scorrono davanti ai nostri occhi e sembrano sorpresi in atteggiamenti che ne contraggono le membra, le divaricano e le torcono come specchio di una sofferenza interiore(1).

Le figure sono fissate al lampo di magnesio da un osservatore fulmineo, che si accosta come affascinato dall'accoppiamento improvviso di due corpi, dalle anomalie motorie(2), dagli sguardi catatonici, dai volti lacerati dall'età e dalle figure femminili in fiorente primavera che sembrano stampate sulla patina di una rivista di moda(3).

Siamo nel cuore di una narrazione che suggerisce visioni intertestuali, un flusso continuo di esperienza vissuta trasfigurata per analogia dell’umano al post-umano, dove appaiono spezzoni di architetture metropolitane, luci fosforescenti messe a fuoco dall’obbiettivo(4): una mano emerge dal fondo bituminoso, in equilibrio di luci nella notte, come fotografata da un’automobile in corsa(5); il primo piano di un uomo in rosso viene incontro in prospettiva aggettata sullo sfondo di vernici rugginose, di plastiche bruciate(6): e un nudo ripreso di tre quarti, con l’aria di ‘prigione’ senza tempo, mostra la spalla allo spettatore, col viso semi-illuminato, le luci violente, le colature di vernice e il fermentare di materia monocroma che appiattisce lo sfondo(7).

Che tipo di mondo descrive Valerio de Filippis e di quale ‘universo orrendo’ (direbbe Pasolini) vuol essere lucido testimone? Tra plastiche argentate, tessiture di gommalacca, carte, colle, resine e vernici diverse, egli ci parla di ‘demoni’, di ‘mutanti’ e di strane figure d’oltretomba, lèmuri a figura d’uomo che all’uomo s’appaiano come ombre profetiche ed esiziali(8)

E' tutto un gran teatro di simulacri questo apparire di 'hollow men' di fronte a una natura decomposta che sembra un retromondo ed è parafrasi del mondo dove lo sguardo si posa come 'muto ospite' di fronte ad un bruciante richiamo di realtà sottolineato da allucinazioni della fantasia. Il pittore segnala le sue immagini come 'astratti furori' o simboliche moralità in un paesaggio consumato al calor bianco degli idrocarburi, metafora di armonie biologiche spodestate dalla violenza tecnica, dai fragori e rumori della guerra in cui si risolve, come dice Macbeth, la favola insensata della vita. Così, in modo quasi spettrale, compaiono strani ritratti, come segni linguistici arbitrari che indicano possibili vie di comunicazione in uno scenario da 'Blade Runner' di un mondo giunto al 'grado zero' della solitudine.

Carica di disperazione vitale, la pittura illumina le più esemplari banalità quando le associa al giuoco calcolato della fantasia: i corpi contratti, le protesi dell'accoppiamento erotico, i flussi naturali della vita e della morte si presentano come la parodia visiva di drammatiche verità esistenziali.

Grazie alle figure degli 'androidi' deformati dalla forma e dal colore (gialli sulfurei, neri bituminosi, rossi scarlatti) e le apparizioni di scenari apocalittici e mitologici (per esempio: una 'Nave di Ulisse' appare sul fondo oscuro di una notte in tempesta, mentre la osserva in primo piano un vecchio dall'aria di vaticinante Tiresia)(9) Valerio de Filippis tesse una trama apocalittica che esalta in modo coinvolgente il potenziale puro della materia cromatica.

Sul piano espressivo il pittore è sensibile al procedere tumultuoso della emotività ed interpreta in modo originale una certa tradizione nordeuropea (dai grumi colorati di Nolde fino alle varianti postmoderne di Lupertz e Polke) ma la sua vocazione formale è ben piantata su una forte radice plastica di impianto veristico o iper-reale che modella poderosamente l'immagine dei corpi umani e ne fa oggetto di fervida indagine morfologica. E in questa intersezione di formule si precisa compiutamente l'accento stilistico di una pittura che persegue consapevolmente l'amalgama del lato visionario dell'immagine con quello drammatico-esistenziale della figurazione.

     (1) Gregor IV (2012)

     (2) Figure serie W -mod. 1a (2012)

     (3) Davanti alla Legge (2012)

     (4) Korva (2006)

     (5) Hand 1 (2006)

     (6) Il Terzo Assalto

            (7) L’uomo (2008)

            (8) C18 (2008), C 23 (2008), Il demone perduto (2012), Mutante (2008), Spleen (2009),

                  Sickcyborg (2008), L’uomo 675 (2009)

            (9) La nave di Ulisse

 

Duccio Trombadori

Roma, 2014

 

Testo critico tratto dal catalogo “Il male oscuro della pittura”

Studio Abate - Roma, 2014

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L’iconoclastia del visibile

di Alessia Carlino                                                                           

 

“Come sarà raffigurato l’invisibile?                                                                    Come sarà ritratto ciò che è senza figura?

Come sarà delineato ciò che non ha quantità, né grandezza, né limiti? Come sarà specificato ciò che è senza forma? Come sarà dipinto con colori ciò che è senza corpo? Quando tu abbia visto che colui che incorporeo si è fatto uomo a causa tua, allora farai l’immagine della sua forma umana, quando l’invisibile sia diventato visibile per la carne, allora raffigurerai l’immagine di lui che è stato visto, quando colui che nella sovrabbondanza della sua natura è senza corpo e senza figura, incommensurabile ed in temporale, allora riproduci la sua forma su di un quadro, ed esponi alla vista colui che ha accettato di essere visto”.

 

Giovanni Damasceno

        Difesa delle Immagini Sacre

 

 

 

 

Esiste un sentimento iconoclasta nelle opere pittoriche di Valerio de Filippis, un’iconoclastia del visibile che lascia trapelare suggestioni della materia e a cui la forma si piega in modo duttile e mai univoco.

La pittura di de Filippis possiede una matrice plastica, i pigmenti densi, saturi si stagliano sulla tela come se volessero narrare un’altra storia, differente dall’ immagine prodotta dall’artista, autonoma e invisibile, celata tra i gesti sapienti del disegno.

Il primo aspetto preponderante del lavoro di de Filippis risiede nell’ancestrale dicotomia tra astrazione e figurativismo. La pittura cerca di giungere al reale manifestandosi nella materia corposa, l’artista inscena la lotta laddove la volontà di astrarre, di far vincere l’inafferrabile, diviene il comun denominatore stilistico della sua opera.

de Filippis ha alle spalle un lungo percorso professionale, la devozione all’arte viene vissuta in maniera totalizzante, per afferrare la tecnica, per trovare il giusto equilibrio con la tela, per esprimere la propria urgenza esistenziale anche attraverso repertori iconografici forti, dediti a raccontare questioni sociali dal grande impatto emotivo.

Negli anni l’artista riflette sulla creazione di mondi fantastici, sullo sviluppo di un piacere tecnico dove dipingere diviene uno strumento di evasione e di edonismo assoluto, un sentiero che inevitabilmente percorre nonostante la volontà, in alcuni lassi temporali, di abbandonare la pittura per tuffarsi in altre realtà lavorative.

La pittura è destinata a rivolgersi allo sguardo, poiché, come accadde in reazione alla Bisanzio iconoclasta, “la materia conduce all’immateriale”. de Filippis attraverso il gesto pittorico restituisce l’immateriale, accenna all’intellegibile per dare forza ad ogni singola pennellata, i sensi, condotti dall’immagine, divengono lo strumento per accedere alla realtà e far si che trionfi il visibile.

La dicotomia tra astrazione e figura si manifesta in tutta la sua immanenza, smaterializzando il quadro per dare voce all’essenza pittorica dell’opera.

Eppure l’artista sente nel suo impegno la necessità di conquistare l’astratto per liberarsi definitivamente della figura, un conflitto interiore che diviene evidente in ogni suo gesto, poiché lo scopo ultimo del suo lavoro risiede nella volontà evocativa del concetto, nel limite invalicabile del pensiero dove la memoria suggerisce rappresentazioni in cui la tecnica è al servizio dell’effimero.

Il verbo si è fatto linea, contorno, forma, composizione, cromia, laddove il quadro cerca di trasmettere allo sguardo l’impressione di un’apparenza fisica che diviene in prima istanza  ”lo  stato sensibile stabilito a priori dal pittore nello spazio dato” in cui si manifesta la percezione immediata dell’opera senza più “alcuno effetto, né trucco, né arbitrio”.

 de Filippis scardina il reale per entrare nel campo dell’indefinibile, come suggerisce il famoso aforisma di Delacroix, egli aspira ad un linguaggio che possa lasciare un segno emotivo anche senza rincorrere la figura, nutrendo la vista di un misticismo incorporeo che nasce dalla materia cromatica e cresce nel gesto pittorico.

La forma stabilisce un’intima connessione d’intenti senza divenire fine a se stessa, l’artista coglie il senso ultimo del medium per mostrare al mondo la visione intellegibile dell’anima in una costante tensione dove la logica delimitazione esteriore è in perpetua contrapposizione all’invisibile dell’astrazione.

La pittura di Valerio de Filippis è il manifesto di una sintesi percettiva, l’appello concreto del soggetto che si traduce pensiero per ricordare alla vista i procedimenti intellettivi della memoria.

L’invisibile vince la sfida e si figura come unico e reale protagonista dell’ekphrasis pittorica.

 

 

 

Alessia Carlino

Roma, 2014

Testo critico tratto dal catalogo “Il male oscuro della pittura” Roma, 2014

Roma, Studio Abate - a cura di Duccio Trombadori, anno 2014

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CONFITEOR

   di Cecilia Paolini

Un allestimento sperimentale per celebrare il ritorno alla pittura di un vero artista e di un grande amico a cui tutto lo staff di ART G.A.P. è legato dall'anno della fondazione. Nella mostra "Confiteor" Valerio de Filippis espone due opere soltanto, di grandi dimensioni, frutto di una meditazione sul senso dell'esistenza portata avanti da decenni.

La Crocefissione (“Glittering Christ”) e “The Circle”: la vita spirituale e la morte terrena, il sacrificio divino e l'esistenza umana costituiscono i temi, opposti e complementari, delle due opere d'arte in mostra. Grandi nelle dimensioni, enormi nella profondità dei significati legati all'iconografia scelta: l'uomo e Dio, Cristo e la coscienza umana. Valerio de Filippis, dopo due anni in cui esperienze artistiche diverse dalla pittura lo hanno impegnato a tempo pieno, torna all'antico e portentoso "mestiere" del pennello e del colore con un'esposizione intima, focalizzata sul tema dell'esistenza.
I due dipinti verranno allestiti al centro delle due stanze della galleria di Trastevere, sospese dal soffitto come una presenza non solo fisica, ma realmente viva. La Crocifissione, per altro, non è un dipinto unico, ma si tratta di un'opera composta da una serie di tele che figurano i dettagli del corpo martoriato di Cristo. Il dolore fisico, però, non è descritto attraverso il segno evidente del sacrificio e delle ferite, ma viene assurto a emblema spirituale, a segno che rimanda alla memoria senza indulgere nel dettaglio truculento. Una pittura, dunque, sofisticata e carica di letture simboliche.
The Circle, invece, è dipinta su una tavola e raffigura un uomo dalle dimensioni reali: in basso al centro un teschio richiama al memento mori che costituisce l'elemento fondamentale della coscienza umana, ossia la consapevolezza della vita e la sua normale conseguenza.
In occasione di questa mostra, ART G.A.P., e in particolare il curatore Cecilia Paolini, è particolarmente e profondamente grata a Valerio de Filippis per aver dato ancora una volta fiducia a coloro che, ormai da quasi un decennio, seguono la sua intensa e importante carriera artistica.

Cecilia Paolini

Roma, 2016

 

Testo critico relativo alla mostra “Confiteor”, anno 2016

a cura di Cecilia Paolini, presso ART G.A.P. Modern & Contemporary Art –

Roma, viale di Trastevere 105/a

 

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HOMO PARABELLUM

   di Cecilia Paolini

 

È necessario coraggio per guardare il mondo che si conosce cadere in frantumi, ci vuole esperienza per cogliere l’importanza dell’estetica della guerra, della distruzione. Le opere in mostra sono un’esaltante contraddizione tra il classico locus amoenus, per la maggior parte dotta citazione tratta da celeberrimi repertori dell’arte del passato, e uno scenario di guerra ben più complesso, in cui si rincorrono immagini di distruzione e di violenza con la stessa naturale rappresentazione di qualsiasi altro tema iconografico.

La cultura del passato, sentita così prossima eppure vagheggiata dall’artista, irrompe nell’ambiente contemporaneo e lo qualifica al di là dello squallore, come se, in retrospettiva, l’istinto primario dell’uomo verso la guerra potesse assumere un valore monumentale al vaglio della Storia. L’archeologia dell’uomo giustifica se stessa e il passato rende importante la miseria del presente. Come per la maggior parte del catalogo di de Filippis, la serie presentata in mostra non coincide con un periodo isolato di studio, ma ha avuto una genesi lontana per una esecuzione che si protrae nel tempo. L’interpolazione tra pacifico e bellico, tra passato e presente, però, è la caratteristica che accompagna praticamente tutti i lavori: nell’Estetica della guerra 02, eseguito nel 2009, quindi esemplare tra i primi elaborati su questa tematica, lo scenario bellico contemporaneo lascia il passo a una citazione di Francois Boucher (1742, olio su tela, Parigi, Louvre).; interpolazione ancor più forte è presente in Ratto (2020): le bellissime fanciulle, tratte dal repertorio rubensiano (Pietro Paolo Rubens, Ratto delle figlie di Leucippo, 1615 ca., olio su tela, Monaco, Alte Pinakothek), non vengono rapite dai Dioscuri ma da due ipertecnologici soldati. In questa caleidoscopica carrellata della pittura più alta che la storia dell’arte ricorda, de Filippis non dimentica l’autocitazione, evidentissima in Papaver rhoeas (2020) dove a sinistra di chi guarda si mostra l’uomo piegato su se stesso, protagonista di molteplici lavori dell’artista, ormai divenuta una delle sue cifre stilistiche più conosciute (Figura, tecnica mista su tavola, 2007).

La guerra distrugge ma costruisce la Storia, nulla è indistruttibile poiché niente si perde nella memoria: uno spettacolo terrifico eppur reale che è astante nell’esistenza dell’uomo.

 

Cecilia Paolini

Roma, 2020

 

Testo critico relativo alla mostra personale “Homo parabellum”, anno 2020

a cura di Cecilia Paolini, presso ART G.A.P. Modern & Contemporary Art –

Roma, viale di Trastevere 105/a

 

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Homo Parabellum

Valerio de Filippis - Art GAP Gallery

  di Giovanni Lauricella

All’Art Gap Gallery si può ammirare l’ultima produzione di quadri di Valerio de Filippis, che continua la sua ricerca storica sull’uomo, colto nelle sue più aberranti sfaccettature.

Anche se questo punto non è spiegato nel comunicato stampa e nemmeno nel testo critico di Cecilia Paolini, mi affido a quello che mi lascia intuire il titolo che, a mio avviso, è emblematico della mostra in quanto evidenzia l’aspetto drammatico della vita che subiamo, fatta di guerre e distruzioni per colpa dell’uomo, appellato parabellum per l’appunto.

Distruzioni e morte di una società disumanizzata che si ravvisano in una pittura che narra lacerazioni sociali, di membra, di forme che si tendono oltre il possibile, sino a dissolversi. Per capire bene la mostra e il quadro che più di tutti la rappresenta e che vediamo nella presentazione, non si può fare a meno di citare il testo di Cecilia Paolini: “L’interpolazione tra pacifico e bellico, tra passato e presente, però, è la caratteristica che accompagna praticamente tutti i lavori: nell’Estetica della guerra 02, eseguito nel 2009, quindi esemplare tra i primi elaborati su questa tematica, lo scenario bellico contemporaneo lascia il passo a una citazione di Francois Boucher (1742, olio su tela, Parigi, Louvre).; interpolazione ancor più forte è presente in Ratto (2020): le bellissime fanciulle, tratte dal repertorio rubensiano (Pietro Paolo Rubens, Ratto delle figlie di Leucippo, 1615 ca., olio su tela, Monaco, Alte Pinakothek), non vengono rapite dai Dioscuri ma da due ipertecnologici soldati.”

Una pittura colta e impegnata che si scontra con la storia, quadri che tentano di arginarne gli effetti più nefasti, un dramma teatrale che viviamo sulla pelle e che una malefica regia ci costringe a non scendere dal palco. Insomma una personale molto impegnativa, che Valerio de Filippis, con molta professionalità, da artista consumato, gestisce con opere di grande efficacia. Una mostra forte e di grande impatto che non delude le aspettative nemmeno dello spettatore più smaliziato.

Giovanni Lauricella

Roma, 2020

 

Testo critico giornalistico, anno 2020



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Honi soit qui mal y pense 

 di Marzia Di Marzio


Con questo titolo a dir poco evocativo si apre la nuova esposizione di Valerio de Filippis. Niente è come sembra, tutto è come appare: su questa dicotomia si sviluppa la storia della collezione che ha come filo conduttore l’erotismo. Un erotismo che prende forma in tutte le sue sfaccettature, per mostrarsi a volte patinato, a volte oscuro, a volte svelato, a volte celato. Riflessione su un tema “scabroso” agli occhi dei benpensanti, trattato con una sottile ironia che si prende gioco degli stessi. Quindi honi soit qui mal y pense come monito per andare oltre le apparenze, per non fare l’errore del giudizio affrettato dato dagli ospiti di Re Edoardo III, primo enunciatore del motto, quando lo videro raccogliere la giarrettiera caduta alla nobildonna prediletta. L’esposizione si compone di opere su tavola di diversa tecnica e formato, opere godibili dal punto di vista visivo, che puntano a scardinare, attraverso un’attenta riflessione, il retaggio culturale imposto dalla società nei confronti di questa tematica troppo spesso definita delicata. Honi soit qui mal y pense offre lo spunto per un viaggio attraverso il mondo dell’eros, rivisitato però alla maniera di un film noir degli anni ’50: donne svestite ma mai volgari sulle quali aleggia come una presenza oscura e voyer l’uomo. Un uomo senza volto, senza quella brama visibile di possessione per una donna posta dinanzi a lui senza inibizioni e barriere. Eros e perversioni trattate con rifiniture ricercate ed elitarie avvolte da atmosfere indefinite e a tratti irreali. 

La sola componente morbosa e trasgressiva risulta essere l’occhio dell’osservatore che si trova davanti la scena: tende che si muovono, sguardi ammiccanti ma nascosti, divani caldi, corpi che si sfiorano, macchine con i fari che si insinuano nella notte… scenario allusivo percepito dal fruitore secondo le proprie pulsioni.

Esposizione, quindi, evocatrice di emozioni differenti a seconda delle proprie inclinazioni, tenendo sempre a mente che honi soit qui mal y pense!


Marzia Di Marzio

Roma, 2011


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Erotiche allusioni

   di Cecilia Paolini


“Honi soit qui mal y pense”, si vergogni chi pensa male di qualunque inclinazione umana. È il motto dei Cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera, il più antico e nobile ordine cavalleresco del Regno Unito. Il nome, e di conseguenza il motto, nacquero per un equivoco, per aiutare una bella dama a indossare di nuovo la giarrettiera caduta accidentalmente durante un ballo… la malizia non esiste e, se pure fosse, sarebbe un gioco: nella serie di Valerio de Filippis, presentata interamente per la prima volta, si ritrova la stessa fresca coscienza per cui è molto più sconveniente ergersi a censori che prendere con consapevole leggerezza ogni aspetto della vita umana, compreso l’erotismo. La serie presentata in questa occasione si compone di opere su tavola di piccole e medie dimensioni che hanno per soggetto, appunto, varie scene di vita erotica, intendendo il senso letterale di “erotismo”: nulla di fisico o particolarmente esplicito, piuttosto un intimo gioco delle parti, talvolta sofisticato, in cui si allude, ma non si esplicita, il vitale piacere della libertà da schemi sociali precostituiti. Tutto, dunque, diventa ironico e persino innocente per chi, in fondo, vive secondo il motto terenziano per cui “homo sum, humani nihil a me alienum puto”.


Cecilia Paolini

Roma, 2011


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Le velate pulsioni

   di Lisa Simonetti


Fantasie erotiche, passioni recondite e desideri più arditi si celano nell’animo umano di ogni essere umano che il più delle volte tende a offuscare i propri sensi, in relazione a meccanismi inconsci fin troppo benpensanti e falsamente ipocriti.

HONY SOIT QUI MAL Y PENSE, si vergogni chi pensa male di qualunque inclinazione umana. Mai affermazione, risalente ai Cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera del Regno Unito, può essere più interpretativa di questa per racchiudere il senso della serie di opere che accompagnano l’esposizione di Valerio de Filippis.

L’oggetto erotico e la continua ricerca del piacere si fondono in una sorta di epos noir tinto da fosche atmosfere che allo stesso tempo vengono patinate da guizzi di lucidità improvvisa.

Visto il successo della prima esposizione e la ricorrente epifania di un tema che contrassegna in maniera a dir poco atavica la società attuale, si ripropone in mostra il nucleo originario della serie, unito a dipinti frutto del lavoro dell’ultimo anno.

Riflessioni che portano Valerio de Filippis a rappresentare il vero significato dell’eros attraverso forme e immagini che non hanno un chiaro riferimento esplicito, piuttosto giocano all’interno della loro intimità rendendo implicite sensazioni di piacere, svuotate da ogni genere di schema morale prestabilito.

L’esposizione, quindi, si compone di opere su tavola di diversa tecnica e formato, aventi come comune denominatore “l’erotismo”. Un erotismo dal sapore letterario, in cui la presenza rivelante di un vissuto emotivo, seppur inconscio, innalza intellettualmente questa ricerca del piacere e del desiderio tanto bramata quanto taciuta dall’animo umano.


Lisa Simonetti

Roma, 2012


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Il manifesto libertino di Valerio de Filippis

   di Cecilia Paolini


Se non per incanto, almeno per gioco… questo è il primo pensiero alla serie di de Filippis che impone la leggerezza come fondamentale requisito per essere compresa e non fraintesa.

“HONY SOIT QUI MAL Y PENSE”: un inno a considerare ogni inclinazione umana come lecita, perché in fondo prodotto di una naturale tendenza, ma anche un modo per schernirsi dietro un modo di essere che si presuppone fuori dal comune. La logica delle “scene” presentate da de Filippis è di un mondo che vuol essere scoperto, ma come se fosse una lontana e inavvicinabile esibizione, come in un teatro la cui platea è aperta a tutti (anzi, dalla platea si pretendono comprensione e plauso) ma il palcoscenico è riservato soltanto ad attori di navigato mestiere.

Non vi è nulla di empatico, in fondo nulla che potremmo definire davvero reale, tanto che davanti a queste tavole lo spettatore è indotto a credersi un voyeur; ma è un gioco delle parti del quale solo fintamente siamo osservatori non invitati. D’altra parte l’ammonizione a non pensare male non sussisterebbe se non si presupponesse non solo di essere al di fuori dei comuni comportamenti sociali, ma che tale stravaganza sia ormai manifesta: è un mondo che per sopravvivere ha bisogno di spettatori, consapevoli del fatto che non potranno mai trasformarsi in attori.

Tutto è finzione, tutto è gioco: ma chi si fregia di un manifesto così libertino, eppur formalmente raffinato, può ben attestarsi nel limbo che separa la realtà da quel mondo: fa parte dell’élite che, al di là delle convenzioni, vive con spensierata consapevolezza la dimensione altra e irreale del mascheramento. La collezione proposta in questo catalogo è un divertissement per intenditori, una serie di opere su tavola di piccole e medie dimensioni caratterizzate da una pittura minuziosa che descrive atmosfere di elitaria eleganza.


Cecilia Paolini

Roma, 2012

 

Artista che esegue opere su commissione riguardanti la ritrattistica e le opere personalizzate.


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