Lo spazzaneve
Valerio de Filippis,
Pozzuoli (NA), 5 marzo 1960, inizia la sua ricerca artistica, nel campo della pittura, nel 1980 a Bari, poco prima prima del conseguimento della maturità scientifica (1982). Compie numerosi viaggi all'estero stabilendosi nel 1992 per due anni a Bruxelles. Dal 1994 vive e lavora a Roma dove nel 2003 fonda lo Studio E.M.P. (Experimental Meeting Point) studio d'arte, luogo di interscambio espositivo e confronto culturale e tecnico tra artisti di qualsiasi linguaggio. Vincitore di numerosi premi, è stato invitato a diverse rassegne, anche internazionali. Del suo lavoro si sono interessati in più occasioni la Stampa e la Radiotelevisione italiana. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private. Attivo dal 1980 nel campo dell'iperrealismo, negli anni Novanta vive la prima fase di distacco dal realismo figurativo verso esperienze tendenti all'astrattismo. Dal 2003 conduce una ricerca pittorica sperimentale attraverso l'uso di colori e materiali non tradizionali. Soggetto delle sue opere è il corpo umano, prevalentemente maschile, ad eccezione del ciclo sulla mitologia delle Sirene. Nel 2001-02 si è avvicinato alla pittura neoespressionista conducendo una ricerca su tematiche legate ai comportamenti umani aberranti, generando, in occasione di una mostra ad Orvieto, controversie che sconfinavano in un'interrogazione parlamentare (dettagli nella sezione Rassegna Stampa). Negli anni 2004-'06 ha lavorato ad opere a tecnica mista tra pittura e computer art, con il ciclo denominato "Frammenti". Nel 2007 realizza la sua prima installazione, un video e alcune opere concettuali. Nel 2010 è autore di alcune performances, due delle quali estreme. Dal 2013 comincia a sperimentare la videoart, il montaggio video e la composizione musicale, quest'ultima avvalendosi sia di software per elaborazione di Musica Concreta, sia studiando pianoforte e chitarra. Nel 2015, dopo aver musicato con voce alcune liriche di William Blake, realizza "Musica per Riccardo III", con testi originali di William Shakespeare. Da qui prenderà il via la realizzazione di un lungometraggio, "The Mirror and the Rascal" di recente concluso ed attualmente in concorso in alcuni Cinefestival, che si caratterizza per talune trovate surreali e sperimentali, e per la contaminazione fra teatro, cinema e videoart.
born in Pozzuoli (Naples, Italy) on March 5 1960, began his pictorial research in Bari in 1980. Throughout his career he traveled extensively abroad, staying in Brussels for two years. He’s been living and working in Rome since 1994, where in 2003 he funded the E.M.P. Studio (Experimental meeting Point): art studio, exhibition space and a place for artists of different backgrounds to inspire and challenge one another. De Filippis has won numerous awards and has been invited to many international festivals. His works are housed in many public and private collections. De Filippis’s been active in the Hyperrealism camp since 1980 and during the 90s for the first time he cut himself off from figurative realism to pursue experiences leaning toward abstractism. Since 2003 he’s been conducting a pictorial research through the use of non-traditional colors and materials. Human body, mostly male, is the subject of his work, though he also produced a cycle on Sirens’ mythology. In 2001-02 he approached neo-expressionist painting by conducting a research on issues related to aberrant human behavior, generating, during an exhibition in Orvieto, disputes that bordered in a parliamentary question (details in the Press Review section). Between 2004 and 2006 de Filippis produced mixed media works (digital art combined with painting) with the cycle called “Scraps”. In 2007 he created an installation, a video and several conceptual works. In 2010 he is the author of some performances, two of which extreme. Since 2013 he’s been experimenting with video art, editing and musical composition, the latter using both software for the elaboration of Concrete Music, and studying piano and guitar. In 2015, after having played with voice some lyrics by William Blake, he made "Music for Richard III", with original texts by William Shakespeare. From here will start the production of a feature film, "The Mirror and the Rascal" recently concluded and currently in competition in some Cinema festival, which is characterized by certain surreal and experimental findings, and for the contamination between theater, cinema and video art.
Il futuro in(finito)
di Enzo Di Gioia
Il racconto pittorico di de Filippis è un incessante
combinarsi, scomporsi e ricomporsi del continuo incastro della memoria,
tradotto sulla tela dalle sicure esperienze artistiche maturate
accademicamente.
Il privilegiare un linguaggio storicizzato dell’arte
(il surreale), come medium visivo che pratica una cultura dell’espansione,
dell’indagine al di sotto dell’apparente, non è un fatto voluto da una scelta
immotivata o scaturita dalle certezze tecniche che indubbiamente l’autore
possiede, ma, bensì, da una chiara posizione assunta di fronte al suo racconto
artistico che, non si esaurisce come si evince, nella pratica del già
conosciuto, consumato o del tutto giocato sul controllo della ragione, valenze
che rischiano di rendere trinco o stagnante il percorso progettuale di
comunicare il privato.
L’artista, concettualmente, ripercorre itinerari
lontani e dimenticati, rivaluta gli eterni ritorni e affida il presente ad un
linguaggio che predilige appunto allargare e aggregare nuovi sensi e percorsi
in continua dinamica che irrompono spesso dal di fuori della volontà
progettante proprio per trasformarsi in significati che non si stabilizzano ed
esauriscono mai. Mette il linguaggio in condizione di produrre un nuovo senso,
dischiudendosi a liberi meccanismi; (componente tipica del surreale) che fa
entrare nel gioco creativo fattori di imprevedibilità, guidato dalla natura
dell’inconscio, che espande e dilata l’intenzionalità dell’opera fino a
stordire l’ornato caricandolo di potenzialità e valori diversi.
de Filippis crea la sua “arte” eliminando il peso
della materia, gioca con colori aciduli, tirati fino a perdere la loro
corposità cromatica, gonfi di significati, putrefacente e toccante di una
tavolozza di toni bassi, freddi, metallici, capaci di originare luoghi dove si
incrocia la luce e la tenebra, il movimento e la stasi, la presenza e
l’assenza, il soggetto e il suo sostituto, l’attimo e l’eternità.
Così, raccontando, lo sguardo si annida in schemi
figurativi che a loro volta sono il tessuto e il suggerimento di una storia, un
momento privilegiato di “quella storia” più ampia, più complessa, più intima e
personale. Pittura che è narrazione, sogni, speranza, lunga catena di accaduti,
di elementi che si susseguono, che altro non è che il desiderio di una (non)
fine.
Questa è la tensione che irrompe nel narrare;
immagini riconoscibili, simbologie sociali identificabili in storia, una
conoscenza metaforica della “morte”, nel dispiegare le cose
una-accanto-all’altra, come il susseguirsi di un “quotidiano”
complesso…inflessibile.
Un’arte che riconosce storie, che vive in un presente
che indaga il passato e si proietta nell’inevitabilità del futuro.
Enzo di Gioia
Bari, dicembre 1982
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La Memoria dei nostri tempi
di Gian Mario Olivieri
Fare pittura, di solito, vuol dire bloccare la realtà
che ci circonda con le immagini che vanno concretizzandosi sulla
bidimensionalità della tela, toccando però, talvolta, la verità dell’esistenza
nel semplice documento della vita quotidiana.
La storia dunque di una ricerca partecipe,
appassionata, condotta sul filo di una filosofia dell’esistenza che si collega
col sostanziale idealismo e formalismo di esperienze regionali che muovono da
una precisa reazione al contrasto fra realisti e neosurrealisti che contrappone
da noi, sin dagli anni Cinquanta, crociani e marxisti, venturiani e zdanoviani.
In ogni caso la vocazione alla figura, alla
rappresentazione, alla ”forma” resta sempre imperante negli elaborati d’arte di
Valerio de Filippis in cui, la visione un po' geometrica delle immagini
significa studio della comunicazione visiva, visualizzazione del mondo
organico, scoperta d’aggregazione delle forme, percezione di sensazioni. Il
discorso è sulla materia e il suo spessore che si fa sempre più sottile, e sul
rapporto fra ombra e colore che appare svilupparsi proprio nell’ultimo dipinto
“Amore ai margini di un’autostrada”. Chiaro è l’interesse del de Filippis per
la Nuova Figurazione e i suoi tagli di sapore fotografico, si dovrà dunque
pensare ai rapporti di de Filippis con le avanguardie storiche del Futurismo
non solo per i tagli ma anche per l’uso della luce e l’analisi di questa
unitamente alla squisita eleganza formale dei toni e della composizione delle
stesse immagini.
Il valore ne risulta uguale. Materia, movimento,
bisogno, desiderio sono inseparabili.
L’onore di vivere val bene la pena che ci si sforzi
di vivificare. “Fiore, frutto, presenza metallica e midollo dell’albero, dal
momento che portano i tuoi colori, sono uno dei segni della tua presenza. Non
ti sarà negato di credere che tutto è trasmutabile in tutto, se non a partire
dal momento in cui lo fisserai in idea”.
Un’interpretazione veramente materialistica del mondo
non può escludere dal mondo colui che lo constata. Perfino la morte lo
riguarda, perché il mondo è vivo, se lui vive.
Non so se mai giovane artista sia stato più cosciente
di queste fondamentali verità, essa è la prima ragione per vedere e ammirare in
questo pittore l’alta sensibilità e la poetica d’arte che lo distingue.
Attraverso i suoi quadri, esercita incessantemente la volontà di aggregare
forme, eventi, colori, sensazioni, il futile ed il grave, il fuggevole e lo
stabile, l’antico e il nuovo, la contemplazione e l’azione, gli uomini e gli
oggetti, il tempo e la sua durata, l’elemento ed il tutto, notti, sogni e luce.
de Filippis si è manifestato, si è identificato in ciò che ci mostra. Spingendo
il suo sguardo al di là di quella realtà insensibile alla quale si vorrebbe che
ci rassegnassimo, ci fa entrare senza sforzo in un mondo in cui acconsentiamo a
tutto, in cui nulla è incomprensibile.
Gian Mario Olivieri
Bari, giugno 1983
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Sperimentali
ritrovi
di
Fortunato Bruno
Il percorso ipnotico-teocratico
dell'arte dell'artista Valerio de Filippis va diramando la scelta del suo
ingegno in tre diverse formule endocrine e antropomorfologiche: l'espansione
del sentimento (potremmo raffigurarci un cuore mimato in progress), il sogno di
un risveglio iper-realistico ed una Weltanshauung della donna come padrona del
linguaggio incessante e premuroso della sua arte.
Ogni
artista produce numerose verità nel colore: de Filippis tenta con
impareggiabile cura e ritmica melodia del suo tempo la giovane apparizione nel
panorama definito dell'arte contemporanea mediante un non voluto linguaggio
retorico, ma anzi teocratico, aperto alla prospettiva del musicale e
dell'espansione come nei suoi colori, come nei suoi disegni a china o ad olio e
nella disarmonia di un amore infecondo o da tratteggiare fuori dal tempo (del
quadro, s'intende), riuscendo sempre a convincere gli attenti fruitori a dei
rebus naturali di risposte senza fine.
Sarà
il pregio dell'arte che muta di generazione in generazione, oppure è una
volubilità esposta a dovere per imprimere un discorso serio sull'avanguardia
che produce del sogno una sola infinitesimale parte rem che a noi sfugge nella
realtà come nell'immaginario.
De
Filippis coniuga a grandi ondate di pieni e vuoti - a volte troppo asimmetrici
e occasionabili - le proprie speranze di un sogno "ad occhi aperti"
come il giovane e sapienziale Freud praticava, dunque spinge ad una fallibilità
dell' assurdo o del vero qualsiasi spettatore che sappia vivere in primo luogo
il quadro da ogni prospettiva terrena.
Siamo
vicini ad ipotesi Beckettiane o a filosofie post-strutturaliste?
La
scelta, sembra dire o punteggiare la tela, della memoria della storia dell'arte
e di ciò che ne verrà se, in un mondo dove i sentimenti annullano lo spazio di
noi, il recupero resta soltanto la pagina di un colore o di un'opera possibile.
La
naturalezza della descritta variabilità teorica della natura sfebbra sempre in
un amore disarticolato ma — amoroso romanticissimo preludio wagneriano — o di
surroundings avanguardisti azzardando anche sperimentali ritrovi, forse di un
aeroporto.
Fortunato Bruno
Roma, 2001
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La quiete del Terrifico
di Santa Fizzarotti
Si
tratta di una voce che,
stranamente, non trasmette
che delle proibizioni divine.
Jean-Joel Duhot
Impregnata
di ombra appare la pittura di Valerio de Filippis, dalle evocazioni
surrealiste, intrise dei simboli eterni dell’umanità. Il corpo appare
all’improvviso alla ribalta di luci inquietanti e fosche che si nutrono delle
tenebre eterne del dolore più oscuro e profondo dell’essere umano.
Dalla Natura luminosa delle cose al racconto ermetico di un sguardo inquieto.
Anche Socrate ha spesso affermato che “accadeva qualcosa di divino e di
demonico”(1). In ogni caso de Filippis non passa all’atto come in qualche
performance contemporanea accade. E’ sufficiente ricordare l’opera degli
Azionisti Viennesi che hanno riproposto in forma drammatica il “corpo”. Herman
Nitsch, per esempio, copriva di viscere di animali i ragazzi nudi distesi per
terra. In definitiva, anche se in forma cruenta, Nitsch ha invitato ad un nuovo
modo di “ripensare” il rapporto con la Natura divenuto eccessivamente violento
e forse per alcuni aspetti perverso. La Scuola di Vienna con Nitsch, Rainer,
Brus, Rot, Schzarzkogler si è sempre presentata come shock in modo che il
presente riuscisse a permettere una riflessione sulla storia umana e le sue
radici. Questi artisti hanno utilizzato il corpo come Oggetto e non già come
Soggetto di Storia mentre de Filippis si avvale della chiarezza espositiva,
della lucidità degli eccessi, della visione di incubi notturni senza per questo
andare l’oltre del corpo, utilizzando la figura corporea per il modellamento di
un Altro, dell’Alterità dentro di noi.
Nelle sue opere drammaticamente egli manifesta tutto ciò che di inedito si
nasconde della natura umana come parte integrante della stessa. In tal senso
all’improvviso sulle tele dilaga l’angoscia, e la coscienza si ritrova ad
essere quella punta estrema di un universo nascosto che racchiude tutte le
memorie del mondo. I toni sono cupi, le variazioni brune si mescolano a quelle
nere e azzurre: si tratta degli aspetti abissali della catastrofe della
modernità. L’impresa ardua dell’artista è in questo caso quella di far vedere
le forme sommerse dell’essere umano che la Ragione tenta di addomesticare:
siamo spesso attratti dalle soluzioni perverse e dall’orrore. Si tratta del
sublime che turba e commuove. Ma forse in verità è come se proiettando sugli
altri tutto il male del mondo noi ne fossimo esclusi. La nostra ferita
narcisistica viene così apparentemente lenita: ma la visione di tale realtà
senza separazione dalla stessa e successiva elaborazione non facilita la costruzione
dello
spazio della coscienza.
Ed è
così che l’Io appare drammaticamente dilaniato tra due indomiti guerrieri: l’Es
e il Super Io. D’altra parte Chasseguet-Smirgel scrive che “Ferenzci afferma
che il desiderio fondamentale dell’umanità è quello di ritornare nel grembo
materno”, lì dove “la frattura tra l’Io e l’ambiente non ha ancora avuto luogo”(2).
Una conoscenza fatta di istinto, intrisa di quelle pulsioni che abitano
l’essere umano.
Valerio
de Filippis non ha remore nel far ascoltare le urla del Silenzio di quei luoghi
che tutti neghiamo, ma che fatalmente governano la nostra vita, i nostri
rapporti con il mondo, la nostra intimità. Gli incubi popolano i suoi sogni e
le sue veglie diurne: il paesaggio assume un’atmosfera metafisica e si
trasforma in un luogo sconfinato dove lo sguardo si fa tattilità mentre
percorre lo spazio morbido della Memoria. Di qui la costruzione di lontane
architetture in cui la Natura è Mente. In tale ottica tutta la sua narrazione
pittorica assume il senso della plasticità e recupera la vibrazione
propria della pittura ad
olio.
Nel
lavoro di questo artista il corpo-natura appare come l’oggetto elettivo della
mente. Tutto ciò vuol dire che “ la mente, ovvero il ‘Bino’, deriva
direttamente dal corpo, l’ ‘Uno’, e che la sua funzione primaria è quella di
contenere ed organizzare la spinta sensoriale che ivi origina”, come scrive
Riccardo Lombardi(3). In realtà è l’organizzazione dei sensi che fa sì che il
corpo percepisca, si muova nello spazio e nel tempo, conosca, immagini e pensi.
La disorganizzazione sensoriale conduce il corpo alla frantumazione. Così come
l’eccessiva ricerca del piacere nella violenza come unica forma di godimento
porta alla negazione del corpo: vale a dire ad un oscuramento, una sorta di
“eclissi del corpo”, di tutte quelle condizioni mentali che sollecitate dalla
emozione generano i processi cognitivi, nuovi modelli di identificazione e
nuovi linguaggi. Il rapporto dell’Io con l’oggetto d’amore
primario (la madre) affiora in tutta la sua nascosta pregnanza che ormai dilaga
nelle esperienze della contemporaneità: la rappresentazione del corpo sulla
scena dell’arte diventa terrifica e sublime. La quiete del terrifico e di tutto
ciò che si inscrive oltre il dolore deborda dalle tele di de Filippis. Si
stabilisce così una difficile condizione di con-tatto tra sé e l’Altro: una
sottile attrazione verso la follia travolge lo sguardo dello spettatore mentre
la relazione corpo-mente lascia emergere una terza area che ha a che fare con
quella terra del divieto che si indica con il nome di Inconscio. Ed è così che
centrale diviene quell’ “Oggetto Originario Concreto” teorizzato da A. B.
Ferrari che non è soltanto il corpo, ma, secondo la mia esperienza, è il corpo
Altro (la Madre) confuso con il nostro stesso corpo.
Ed è su
tale inquietante arcaica relazione che si fondano i processi di pensiero
individuali. Ed è appunto tale sensazione originaria che si porrà sempre quale
elemento di “congiunzione tra l’emozione e il pensiero, tra Inconscio
strutturale e Coscienza, ma soprattutto punto di incontro tra
corpo e
mente”(4).
In
verità oggi forse solo l’Arte può esplorare quei nuclei psichici profondi che
con veemenza affiorano nella realtà nel tentativo di avviare processi di
comprensione, interpretazione ed elaborazione degli stessi. Ancora una volta
l’arte può assolvere alla sua funzione “ salvifica” e rigenerante della storia
dell’umanità.
Nell’opera La
fandonia dell’oracolo (1980) la composizione è ironica nella sua solennità:
la terra appare spaccata da un antico sisma, gli alberi sono il ricordo di
tutto ciò che è stato, non esiste futuro che non sia già avvenuto. Così come in
un lavoro del 1989 dal titolo Amore ai margini di un’autostrada si avverte la presenza
della natura ambigua dell’identità. Il silenzio deborda in Ne
parliamo del 1998: due figure ai margini della tela non guardano da nessuna parte
così come appaiono perse nel labirinto di un linguaggio sconosciuto che
racconta l’inenarrabile. Le opere di de Filippis sono attraversate dal senso
della nullità dell’essere, dall’angoscia della morte e del vuoto: ne La bestia (1999) e nella Serie
dei sette peccati capitali: Vanità (2001) l’artista lascia intravedere l’essenza
stessa della palude mortifera di Narciso, del male, del piacere estremo della
violenza che equivale alla sottomissione dell’Altro, alla spersonalizzazione
dell’essere umano, all’annullamento di qualsiasi forma di linguaggio che non
sia quella della prevaricazione, della tirannia, di Thanatos. Di qui il livore
dei volti, la plasticità della figure e dei corpi, il sarcasmo e il dolore che
affiorano dagli sguardi dei vincitori e dei vinti. Il Maschile e il Femminile
non sono soltanto fra loro contrapposti, ma l’uno ostile all’altro, pregni di
assoluta Estraneità. I miti della contemporaneità non sono differenti da quelli
delle altre epoche poiché l’inconscio non ha luogo nè tempo. A lungo negati e
repressi quegli stessi miti sono diventati feroci nella prigione della
cosiddetta ragione. Di qui la difensiva atmosfera metafisica che affiora da
tutti i lavori di Valerio de Filippis che con sofferenza riconosce la “
fisicità “ in tutta la sua terrifica pregnante realtà come parte rimossa
dell’umanità: in tal senso lentamente con la parola pittorica modella il nucleo
della coscienza all’interno della quale illumina le mostruosità dell’essere
umano rendendole inoffensive attraverso un processo catartico di rigenerazione
e di riscatto.
NOTE
(1) J.J. Duhot, Socrate o il risveglio della coscienza, Borla, Roma 2000,p.88
(2) J. Chasseguet-Smirgel, Creativita’ e perversione, Raffaello Cortina,
Milano, 1987, p.40
(3) R. Lombardi, Corpo, affetti, pensiero. Riflessioni su alcuni ipotesi di
I.Matte Blanco e A.B. Ferrari in Rivista di Psicoanalisi, 2000,XLVI, 4, Borla
Roma,p.p. 691-698.
(4) R. Lombardi, op.cit.
Santa Fizzarotti Selvaggi
Bari, settembre 2001
Testo critico tratto dal catalogo “La quiete del Terrifico”
(
Roma, Palazzo Ferrajoli – Benevento,
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Essere o tempo
di Gabriele La Porta
Nessuno conosce la sua
dimora
essa è nell'errore
e la sua esistenza è impostura.
William Blake
Richiami carichi di suggestione sono quelli che
provengono dalle opere di Valerio de Filippis. E non solo per le immagini in se
stesse, offerte dai quadri, ma anche per i titoli ed inoltre per le belle
citazioni letterarie che l'artista abbina ad ogni quadro. Questi elementi
verbali sono ben lungi dal risultare esplicativi, in senso stretto, rispetto
all'opera pittorica, in quanto non sono stati predisposti con il ruolo di
riprodurre, con una semplice sovrapposizione, quanto viene espresso dal
linguaggio delle immagini. Ne deriva così un complesso ed evocativo discorso
d'insieme sul piano concettuale e storico.
Già il primo quadro di questo viaggio attraverso gli ultimi due decenni,
interpella fortemente l'osservatore con i tre messaggi, appunto quello visivo e
quelli verbali, tra loro non immediatamente e non facilmente integrabili. Si
tratta di messaggi che hanno in comune la provocazione, del resto già anticipata
dalla didascalia generale della rassegna, che è: "La mia misura è
l'eccesso...". Il titolo del quadro è ”La fandonia dell'oracolo”. La citazione, tratta da "Tropico del cancro"
di Henry Miller, dice: "Io sono un uomo che vorrebbe vivere una vita
eroica e rendere più sopportabile il mondo ai suoi occhi". L'immagine
propone in primo piano una distesa piatta e desolata, sulla quale campeggia la
scultura di un guerriero antico nudo, con elmo, daga e scudo. La distesa è
interrotta da grandi voragini a piombo. Al confine estremo, dalla parte più
vicina emergono gli scheletri di due grandi alberi, mentre da quella più
lontana si staglia lo scheletro un po' più piccolo di un altro albero, con
accanto parimenti una scultura di un uomo, che in questo caso sembrerebbe
disarmato e senza testa. Oltre il confine di quello che risulta essere una
sorta di altopiano, si intravede in basso un' altra landa, a sua volta con una
scultura.
Che cosa esprime tutto questo e secondo quale stile o appartenenza di scuola?
La risposta non può essere immediata, ed è sufficiente un'occhiata agli altri
quadri per rendersi conto della complessità della questione, in quanto agli
elementi costanti si aggiungono quelli che di volta in volta appaiono diversi.
Il percorso critico, o meglio, l'operazione ermeneutica, può quindi avere un
carattere decostruzionistico, nel senso derridiano del riconoscimento delle
stratificazioni depositatesi nell'opera in fase di ideazione e di produzione da
parte dell'autore. E questo accade non solo a livello di coscienza piena della
citazione, dell'allusione agli ascendenti, espresse in funzione finalistica
rispetto alla lettura che poi dell'opera verrà effettuata, a chiarire che non
si tratta solo di creazione pura, di assoluta intuizione lirica senza legami
con una matrice. Il richiamo può agire infatti anche attraverso automatismi che
non derivano scientemente dall'Io, ma che l'Io, poiché non appartengono
all'area della rimozione, può comunque riconoscere. Che dire, allora, del
quadro in oggetto? Certamente si allontana di molto dal naturalismo ingenuo,
spontaneo, della pura e semplice rappresentazione della realtà. E' questo, del
resto, un atteggiamento in linea con il fatto che, nonostante alcuni tentativi
effettuati in questo senso, di restaurazione neoclassica, la pittura
contemporanea si tiene ormai, dal tempo della svolta impressionistica della
seconda metà dell'Ottocento, che pur essendo figurativa introduceva il soggettivo
della percezione visiva, lontana da tale visuale. Allora, si tratta di fare i
conti con le avanguardie, da quelle storiche di inizio Novecento fino alle
neoavanguardie seguite alla svolta di metà secolo e, secondo la felice
espressione di Achille Bonito Oliva, alle "transavanguardie", che
segnano la libertà tipicamente postmoderna di prelievo e di contaminazione. In
questo modo è possibile essere se stessi, secondo la propria peculiare
sensibilità, pur essendo partecipi del proprio tempo e degli stili che lo
caratterizzano.
A livello dei messaggi verbali di Valerio de Filippis, l'area di riferimento
che balza in primo piano è quella dei movimenti più dinamici, in qualche modo
ribelli, "eroici" non tanto in relazione ai conflitti terreni,
quanto, in senso tragico, nel rapporto con l'Essere e con la vicenda della vita
in se stessa. Si tratta quindi dei movimenti postimpressionistici più
filosofici di transizione al Novecento, che portano alla fase precubista di
Picasso, poi di quelli sorti in relazione con l'esperienza della Bauhaus di
Gropius, in primo luogo l'Espressionismo, infine del Surrealismo. E la frase di
Miller è in questo senso molto esplicita. Dal titolo dissacratorio e ribelle
del quadro viene sostanzialmente una conferma in tale direzione. In quanto
all'immagine, essa si rivela non in contrasto con questa interpretazione.
L'atmosfera è quella fredda dell'assenza di movimento, addirittura di vita.
L'ambiente è irreale, da incubo. Il surrealismo tragico è direttamente evocato.
Mettendo insieme gli elementi verbali e quelli non verbali ne risulta
l'annullarsi di ogni possibilità, quindi delle illusioni, e in questo senso va
inteso il fallimento dell'oracolo, con la sconfitta dell'eroe. Il quadro
successivo, dal titolo “L'incertezza del domani”, secondo la linea logica individuata di un
nichilismo eroico, dove però l'eroe, come nel mito di Sisifo, non è mai domo,
verrebbe prima nel tempo. L'ambiente è tetro, minaccioso, con quelle scogliere
sul fondo, ma l'acqua è più viva degli elementi del quadro precedente, e
soprattutto è viva la donna in primo piano, che si offre al sole anche se
pensosa. Qui a togliere le illusioni è la citazione del testo di Capograssi,
che dichiara l'impossibilità dell'esistenza di ancorarsi all'orizzonte stabile
dell'essere ( “E qui è tutta la finitezza (…), questo avere la vita momento per
momento, questo averla a goccia a goccia, non potersi mai sentire compenetrare
in essa, non potersi mai sentire essa.”) Il riferimento di scuola può essere in
questo caso il Simbolismo ambiguo di Khnopff, di Hodler. De Chirico, comunque,
preme alla porta. Interessante è il fatto che la rassegna, dopo l'avvio con le
tre opere d'inizio degli anni Ottanta, compie un salto in pratica verso
l'attualità dal 1996 in poi, con un quadro solo di transizione, che è “Amore ai margini di un'autostrada”, del 1989, al quale è abbinata la citazione del
frammento "Verso di voi, così belle, il mio pensiero non muterà mai",
della poetessa dell'antichità greca Saffo, che aveva costituito nell'isola di
Lesbo un tiaso poetico ed erotico con una comunità femminile. Si tratta di un
quadro che rappresenta un amplesso tra due donne, probabilmente, coricate in un
prato sottostante la carreggiata di un'autostrada. La figura che si china
sull'altra è certamente femminile, con il seno nudo in evidenza. L'altra, supina
ed estatica, con i capelli che si confondono con l'erba, ha gli occhi
socchiusi, i lineamenti delicati e le sopracciglia curate. Sul significato
dell'insieme dei messaggi, si può ipotizzare l'acquisito passaggio alla
consapevolezza del postmoderno filosofico, con il suo relativismo. Ma tale
accenno è carico di solennità e di mistero. Quel "non muterà mai"
esprime una volontà irriducibile di assoluto.
Nella serie dei quadri, sono molti quelli che presentano figure esili,
evanescenti, dai tratti sfumati, senza fisionomie riconoscibili. Le figure
umane, in se stesse e nel loro intrecciarsi, sono inquietanti, così come lo
sono la scena e l'atmosfera, i titoli, i testi abbinati. Ma sempre traspare
l'ostinata resistenza dell'eroe, se non apertamente dichiarata, manifestata
però dalla freddezza dell'analisi, della descrizione del fallimento, che non
viene mai accettato e sublimato. Il quadro “La soglia all'orizzonte obliquo”, del 1998, è abbinato alle parole di Viviani, tratte
da "Una comunità degli animi": "Indomabile sguardo che cerca
altri mondi in questo. Da sempre ha scambiato la luce per i corpi, ha chiamato
sostanza ciò che non si mostrava, ha sconvolto paesaggi, ritorni, incontri: ha
bruciato tanta vita fino a spegnersi". Qui siamo al di là delle illusioni,
dove appunto l'"orizzonte" diventa "obliquo". L'essere non
si è rivelato, nonostante la dedizione e i sacrifici che hanno contrassegnato
la sua ricerca. L'immagine del quadro presenta figure umane dai caratteri
suddetti, in pose che esprimono disperazione, mentre una appare come sospesa
nel vuoto, forse appesa per il collo. Il quadro “Serie dei sette peccati capitali: Ira”, del 1999, presenta un gruppo di uomini nudi, sempre
con l'aspetto di larve evanescenti, abbattuti anche se ancor vivi, o in
procinto di esserlo, mentre uno solo di loro è ancora eretto a sfidare il destino
con lo sguardo volto all'orizzonte, in un ambiente ancora una volta desolato e
privo di vita. Il testo abbinato è di Dante: "Mentre noi corravam la morta
gora, dinanzi mi si fece un pien di fango". E' tratto da "La divina
commedia" e riguarda il girone appunto degli iracondi, con il personaggio
di Filippo Argenti che si fa avanti intrecciando con Dante un dialogo
sorprendente. "vedi che son un che piango", egli dice, ma Dante non
manifesta per lui alcuna comprensione, ammirazione, affetto, come per Francesca,
Ulisse, anche avversari politici come Farinata degli Uberti e così via. Anzi,
gli esprime tutto il suo disprezzo. Qual è il significato? Sta presumibilmente
nella stessa intima contraddizione tra il messaggio iconico, con l'uomo che
sfida il destino inesorabile, e quello verbale, che ristabilisce i termini del
confronto impari. Nell'ordine ontologico del destino l'"ybris", la
protervia umana nei confronti degli dei soccombe, ma l'animo in qualche modo
rimane indomito. L'eroe sarà a sua volta abbattuto, ma non piegato come gli
altri che accanto a lui si muovono carponi. In tutti questi quadri il richiamo
alla pittura metafisica di Giorgio De Chirico e al surrealismo di Salvador Dalì
appare evidente. La filosofia che traspare, data dalla consapevolezza del
tragico in ultima istanza non risolto, in quanto si istituisce uno sdoppiamento
tra l'eroe rappresentato e l'Io narrante che con esso si identifica, ma che
continua comunque la sua ricerca.
Gabriele La Porta
Roma, ottobre 2001
Testo critico tratto dal catalogo “La quiete del Terrifico”
(
Roma, Palazzo Ferrajoli – Benevento,
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Il genio perverso dell’arte
di Francesco Barresi
Il corpo è fame, ma la fame è ritmo:
ponete l’accento sull’una,
e avrete il segreto
dell’esistenza;
ponete l’accento
sull’altro,
e avrete il segreto
dell’arte e del sadismo.
Gino Raya (1)
Valerio de Filippis è un artista poliedrico, da sempre
impegnato in un continuum teso alla ricerca di un personalissimo vissuto
introspettivo che lo rende definibile come un intellettuale della violenza velata.
La grandezza di de Filippis consiste nella semplicità con cui cerca di dare
delle risposte a delle domande grandiose che nessuno gli pone, se non la sua
stessa coscienza, quale testimonianza per comprendere il mondo circostante,
l’arte e soprattutto se stesso. Egli ripercorre, trasudandone i connotati
tipici, l’epoca della nostra società urbana e della sua gente, nella struttura
psichicamente malata dei suoi torbidi segreti.
Le sue opere testimoniano la modernità iconografia dell’essere, che parte dalla
base di una concezione fisiologica dell’ animo umano, dove l’intimo mistero
dell’ uomo, per l’artista, è un ulteriore strumento di ricerca sul significato
del dramma umano, sia in chiave sociale sia in chiave individuale.
I soggetti di de Filippis, quindi, riproducono metafore di clamorosa attualità,
concernenti contesti specifici di committenza che finiscono con l’ interagire
ampiamente con la situazione umana spesso angosciante del suo tempo.
La trama delle sue tele si mostra non semplicemente bifrons, bensì multifrons,
cioè molteplice, sfaccettata, pluralistica, un luogo dello spazio interiore,
oltre che fisico, che esercita nell’ osservatore, in una parola, un’attrazione
misteriosa e morbosamente intimistica della perversione umana.
Quello che poi colpisce è l’originalità della sua concezione pittorica e del
suo stile, tutto reso a rappresentare la realtà agghiacciante e morbosa della
vita quotidiana che ci circonda.
Ma le tele di de Filippis non sono mai forti e scioccanti: forte e scioccante è
il contenuto che traspare grazie all’ estro sottilmente “perverso” dell’
artista, che riesce ad infondere anche nel comune osservatore una serena ma
morbosa curiosità del cruento.
L’osservatore attento sa cogliere sempre quella sottile linea di morbosità che
delimita il limite tra l’osceno, crudo e
sgraziato e la perversione, raffinata e pungente, attraverso cui l’artista
riesce ad imprimere, con vivida e traslucida malizia, l’ incanto della cruda ma
al tempo stesso docile essenza della torbida carnalità. La sua arte è quindi un
chiaro invito rivolto a ciascuno di noi a diventare terapeuta di se stesso,
perché ciascuno di noi possa interagire con le proprie ossessioni e pulsioni,
attraverso un approccio strutturale atto a cogliere i principi del
funzionamento perverso dell’ animo umano che spesso penetra i misteri dell’
inconscio, valicandoli.
Il catalogo cerca di cogliere i suggerimenti che emergono dalle tele di Valerio
de Filippis per meglio interpretare i suoi lavori, che hanno dato forse una
svolta fortemente rivoluzionaria al panorama dell’ arte contemporanea italiana.
Le tele raccolte in questa mostra offrono un’avvincente occasione di lettura
della nostra società, tale da poter interessare il pubblico più diverso.
Difatti, nonostante l’avvertibile impegno tecnico mostrato dal pittore e la
tensione personale più intimistica tesa a sostenerlo, queste tele hanno il
pregio di trattare con accuratezza specialistica le tematiche della morbosità
che un’invidiabile lucidità pittorica e una non meno rimarchevole chiarezza
raffigurativa rendono del tutto accessibili anche a coloro che si avvicinano
per la prima volta alle sofisticate problematiche trattate.
Nei quadri di de Filippis aleggia inesorabile un senso di morte: in essi è
quasi tangibile un senso di macabra visione degli elementi urbani, dove spesso
la fragilità della carne è contrapposta alla durezza dell’ acciaio. E’ il caso
di Bimba nei pressi di una periferia
(1982), dove in una landa desertica,
dietro il cui orizzonte si intravede la sagoma di una metropoli, accanto a
carcasse di automobili la sensualità in fieri di una ragazzina è storpiata solo
dalle sue lacrime di emoglobina, mentre dietro le sue spalle la caricatura di
un moncone di tronco umano, forse dilaniato e squarciato dopo un terribile
scontro, sembra implorare aiuto, rantolando e strisciando nella sua stessa
pozza di sangue.
Un feticismo dell’amputazione potrebbe caratterizzare il soggetto dell’
artista, così come è rimarchevole il riferimento alla statuofilia(2) nella tela
Vita al limitare di un cimitero d’auto (1983), nella quale due manichini, forse
capitati casualmente l’uno sull’altro, sembrano amoreggiare tra le lamiere di
un’auto in un tripudio di organica plasticità, quella stessa organica
plasticità di cui sembrano pervase tutte le opere dell’ autore, specie quelle
del secondo prolifico periodo.
Plasticità delle forme che è così evidente ne The straight’s nursery (1995). Qui è rappresentato “l’altro da noi”, l’alter ego,
quello che osa solo nel più intimo dell’oscurità del privato. E’ in scena la
doppia vita della farsa, quella che Goffmann chiamava rispettabile “facciata”,
che si mostra solo sul palcoscenico della vita e che si contrappone alla
sostanza del nostro essere che è visibile solo nella “ribalta” dell’oscurità
della nostra casa, lontano dagli sguardi indiscreti della società(3). Un uomo,
un grigio impiegato presumibilmente espunto dalla quotidianità dell’ovvio e del
suo stesso rigore, fa rientro nel buio del suo appartamento, dove sembra
ritrovare la sua oscena vera, sola comunità di riferimento, in cui nude donne
legate e sottomesse danzano un’orgia del bondage(4) solo apparentemente mimata,
ma dalla quale traspare tutto il mondo malato e perverso della sadica
sessualità del protagonista. Anche ne I relitti dell’illusione (1997) e nei tre successivi Allucinazione 25, La soglia all’orizzonte obliquo e Intruder, tutti del 1998, sono rappresentate
danze orgiastiche tra indefinibili figure plastilinee impegnate ancora in
giochi di bondage (specie nel primo) o drammaticamente evocative di drammi
irrisolvibili scaturenti in atti di violenza autodiretta (La soglia) o ancora
triolistici cunnilingus più o meno consenzienti perpetrati tra fiamme
infernali.
E proprio l’Inferno e le sue pene, in alcune opere, sembra che de Filippis
voglia rappresentare (e sembra farlo con spontanea facilità), come vedremo in
epoca più recente.
Ma è solo con La bestia (1999) che vengono a connotarsi maggiormente le matrici
parafiliche(5) dei futuri soggetti defilippiani. In quest’ opera, basata tutta
su un’immota attesa di eventi morbosamente cruenti, è lapalissiana
l’ispirazione fetish(6) dell’artista. Un uomo nudo, col volto travisato da una
mascherina arancione, è immobile con delle catene in mano, contemplando ed
assaporando il piacere che gli deriverà dall’utilizzarle sulla donna,
presumibilmente consenziente, già incatenata che gli si pone innanzi vestita
solo con un completo leather, guanti, minigonna e stivali neri. Qui il sottile
dualismo che lega il rapporto master-slave(7) è rappresentato dalla stessa
catena, che unisce, ineluttabilmente, vittima e carnefice, in un gioco alla
violenza ricercata e agognata da entrambi gli attori, tutti volti ad un’insana
ricerca del piacere nel dolore. Il crimine qui non c’è: vive solo il reciproco
intendimento della costrizione auto-etero diretta, attraverso la quale i
protagonisti esperimentano forti sensazioni psicofisiche, sprigionando fenomeni
di vera e propria estasi organica.
Scomposizione (2000) continua la tematica dell’ s/m(8) inaugurata da La
bestia. In essa è rappresentata l’ambivalenza dell’animo umano e del suo
doppio, raffigurata nel dettaglio delle mani appoggiate sui fianchi di una
personalità sadomasochista: quella di sinistra, brandente una piccola frusta,
quella di destra imprigionata invece da un bracciale di una catena, entrambe,
anche qui, in una statica attesa che prelude a momenti di cruento piacere
estremo. E’ espressa, attraverso il linguaggio simbolico dell’arte, la metafora
del dualismo introspettivo della diade sessuale riscontrabile nelle sessuopatie
più importanti, tutte basate sull’ eterno binomio dolore/piacere.
E dolore e piaceri ormai perduti sono emozioni che traspaiono dall’ opera Serie dei sette peccati capitali: Lussuria (2000).
Qui l’ ispirazione iconografica è di chiaro stampo cinematografico: il
riferimento abbastanza esplicito all’attività omicidiaria del serial killer protagonista
di Seven(9) serve da contro altare all’artista per rappresentare il suo
personalissimo concetto autobiografico di punizione. Come John Doe, il killer
sociopatico protagonista della pellicola, compie omicidi moralistici perpetrati
ai danni di vittime che si sono macchiate in vita di uno dei sette peccati
capitali (gola, avarizia, accidia, superbia, lussuria, invidia, ira) così anche
il nostro artista punisce una donna dedita ai piaceri della propria sessualità,
“attraverso un delitto concettuale”(10) Il soggetto è rappresentato in tutto il
suo cruento e macabro realismo dall’ artista che, in un
“esplicito rituale allucinatorio”(11)e in un delirio catartico, scarnifica
l’essenza stessa della rappresentazione della morte, ostentandola.
La donna giace su un prato verde, con i segni di una violenza carnale subita e
svelata solo dalle vesti strappate, incaprettata mani e piedi dietro le terga
accanto a cadaveri di cigni bianchi, in un grottesco bondage di commistione
necrozoofilica. Se nella pellicola cinematografica il serial killer per i suoi
omicidi si ispirava a Dante, Shakespeare e Chaucer, nella tela il de Filippis
sembra ispirarsi ai canti di virgiliana memoria: il paesaggio bucolico, il
verde, l’acqua del lago e il sole che albeggia rappresentano tutti la vita, che
si contrappone con modalità inesorabilmente cruente alla morte della donna, dei
valori, della bellezza, della natura data dai cigni, dei piaceri della
sensualità e della carnalità. Una tela forte nel significato, che impatta
l’osservatore, mai grandguignolesca ma dotata di un certo fascino perverso che
intriga e colpisce a riflettere l’osservatore, catturato dall’ immota
rappresentazione della naturalità della morte e della fine “della peccatrice
messa alla stregua di animale, predata”(12) da uno sconosciuto ma reale
cacciatore seriale. E la realtà finisce per confondersi con l’arte: molti
assassini seriali, molti “predatori”, sono difatti attratti dalla pittura, che
diviene una delle modalità surrogate preferite per esprimere la loro interiorità
malata e tormentata(13). L’arte e l’omicidio seriale sono quindi sempre finiti
col confluire : spesso, il fascino perverso e disturbante dell’ omicidio
sessuale ha finito con l’ influenzare le avanguardie pittoriche di vari
periodi. Esponenti artistici del calibro di Otto Dix, George Grosz, Alfred
Dòblin(14) e Francis Bacon anch’essi, come de Filippis, nelle loro opere
raffigurano i fantasmi della loro ossessione: il sesso, la morte, la violenza,
la fine, il Male.
Sono archetipi del Bene e del Male, quelli rappresentati da due identiche
figure unicorni d’argilla antropomorfa, che si fronteggiano carponi nel mezzo
di un’arida radura, in Lotta interiore (2001), il cui titolo esplicitamente autobiografico sottende
l’eterna lotta belluina degli opposti, del bianco e del nero, del femmineo e
del mascolino. La figura antropomorfa del Bene, riconoscibile forse per
l’unicorno bianco, simbolo della potenza della Bontà, e quella del male,
riconoscibile dal rosso alito di fuoco, sono le facce della stessa medaglia
uomo: esse sono, unite simbioticamente, il principio del Baphometto satanista,
vero simbolo magico del tutto e del contrario del tutto, disegnato dal grande
occultista Eliphas Levi(15), rappresentante l’eterno ambiguo dualismo dell’
umanità, essenza stessa sia del Male assoluto che del Bene relativo. I canoni
del Bene e del Male si ritrovano in Una Venere occidentale (2001). Qui si possono riscontrare spunti di letteratura
dell’orrore: su una metropoli ultramoderna, immersa nel buio della notte e
solcata da alti tralicci sanguinolenti, veleggia la sagoma di una donna dorata,
nuda sino al ventre, che sfuma nella doratura di un’enorme macchia rossa nell’
oblio dell’oscurità, mentre al cui fianco una mano sporca di sangue, che fuoriesce dalle maniche di una giacca,
brandisce un fallico stiletto appuntito che lambisce le sue nude gambe.
L’orrore dell’uccisione qui è solamente suggerito dall’ osservatore smaliziato,
che riesce comunque ad intravedere le gesta di un attualissimo Jack lo
squartatore. Difatti, se in primo piano è evidenziata una moderna megalopoli,
ad essa si contrappunta una pièce che ricorda la violenza dell’antieroe
dell’epoca vittoriana, riesumato qui dall’artista per ricordare che la
dissolutezza può essere sempre punita, in qualsiasi epoca. La denuncia alla
dissoluta e libertina società odierna, rappresentata dalla donna “dorata”, e di
cui l’artista stesso fa parte, e oltremodo manifesta, così come il chiaro
intento di “dissacrare la bellezza delle sue figure femminili (…) attraverso un
atto di violenza subliminale”(16). Sposi (2001) rappresenta invece un sarcastico e cinico tentativo
da parte dell’artista di ricreare e riproporre quegli antichi valori sociali
ormai perduti e “ritrovati” nella moderna famiglia alle soglie del terzo
millennio. Ma, in realtà, quei valori enucleati dal de Filippis non sono altro
che la grottesca caricatura, rappresentata dall’ennesima parafilica
rappresentazione del legame basato sulla pratica sessuale del private(17).
Il “marito”- carnefice, in primo piano, è difatti travisato da una tunica con
cappuccio nero e stringe tra le mani una verga, mentre alle sue spalle si
intravede la sagoma scheletrica e mummificata della vittima-compagna, intenta a
mordicchiarsi il labbro, unica parte organica ancora rigonfia di sensuale
vitalità, nell’attesa di assaporare le sensazioni di piacere che la violenza
del partner le procurerà. E’ la
rappresentazione dei nuovi valori della famiglia odierna, è la raffigurazione
della sofferenza del piacere, è la dimostrazione del legame basato sulla
perversione della sessualità.
Un tributo di chiara ispirazione necrofilica è la sessualità che viene
raffigurata dall’artista in L’incidente (2001). Se di fatti l’opera del 1983 aveva per protagoniste
due figure inanimate, qui le figure antropomorfe esprimono tutta la loro vitale
e pulsante deviazione, basata sul feticismo di un’organicità malata e ferita.
In una automobile incidentata, un uomo si avvinghia sessualmente su un corpo
femminile, il cui capo riverso in modo così forzatamente innaturale non può che
connotarlo ormai come deceduto. Come il contorto e malsano percorso condotto da
Ballard nel suo romanzo(18), così Valerio de Filippis, nella durezza della
rappresentazione di un atto necrofilico, esplora le perversioni umane spinte
alle loro estreme propaggini in un torbido percorso alla ricerca del pericolo e
del piacere estremo, teso tutto alla ricerca di un feticismo dell’ organicità
malata, ferita ed umiliata. Ma attraverso lo sguardo di de Filippis, i corpi,
che siano di plastica o di carne, diventano un’introspettiva sinfonia visiva
basata su un’armonia organica.
L’annientamento della donna è ostentato in Le armi reciproche (2001), dove tre donne nude di spalle scorrono come sagome
di un bersaglio lungo l’ipotetico poligono della vita, mescolandosi ai flutti
impetuosi dei loro stessi capelli, inquadrati dal mirino minaccioso di un
killer prossimo all’ azione omicidiaria. Anche qui è punita la sessualità della
donna, utilizzata sovente come arma di seduzione per conseguire meri fini
materialistici, e nulla può l’uomo, assassino del suo stesso piacere, se non
ribellarsi a tanto oblio della carnalità con l’unica arma a sua disposizione,
una fallica carabina.
L’inferno artistico e visionario defilippiano trova l’apoteosi ne I ciechi o La beatitudine dannata (2001), la cui dinamicità drammaticamente rappresentativa
dell’ insieme è lacerante. Qui il Pandemonium è raffigurato nelle figure
plastilinee che sembrano sorgere da un plasma magmatico dell’oblio infernale: sulla
sinistra una folla di anime dannate si dispera sulle apparentemente solide e
sicure rive da cui però si innalzano minacciose lingue di fuoco fluorescente,
dalle cui spire sembra librarsi un’anima verso il cielo limpido del Paradiso
Perduto(19). In primo piano, un’altra, quasi sfinita, appoggiata su una specie
di roccia innalza una candela, forse unica fonte di luce e di calore per
individuare l’anelata via della vera salvezza rappresentata da una stella a sei
punte, che altri è se non l’apportatore di Luce, Lucifero il Principe degli
Inferi, alla cui base sovrintende una sinistra figura demoniaca che, immobile,
assiste indifferente e compiaciuta all’ oscena e tragica danza dei dannati
ciechi.
Spietata e drammaticamente cinica la conclusione nelle parole dello stesso
artista, che non lascia spazio a soluzioni di continuità: “…in ogni caso la
direzione per la beatitudine è dannata”, cioè, a suo dire, è effimera ed
illusoria, perché non lascia alcuna speranza
all’umanità, afflitta nell’ intimità del proprio essere da un’ ineluttabile ed
insanabile cecità spirituale.
NOTE
1) Gino Raya, L’ arte di uccidere, Ciranna 1970, Roma.
2) Ossessione sessuale per statue, oggetti e rappresentazioni antropomorfe.
3) Erving Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione, Il Mulino 1969,
Bologna.
4) Pratica sessuale di costrizione mediante l’ utilizzo di corde, lacci,
catene, bende, ecc.
5) Sinonimo di perversione. Assume valenza patologica se essa viene a
sostituire completamente il normale atto sessuale.
6) Passione per materiali, abbigliamento (pelle, cuoio, PVC, tacchi alti,
stivali, lingerie) od oggetti che trasmettono forti sensazioni e simbologie
sessuali.
7) Nel lessico del sadomasochismo, indica il rapporto dominio – sottomissione
tra il Padrone (il Master) e la schiava (la Slaver).
8) Acronimo di sadomasochismo.
9) Seven, di David Fincher, 1995, USA .
10) Hary Kelvin in Sperimentali ritrovi, di Fortunato Bruno, Associazione
Culturale AllucinaNazione.
11) Hary Kelvin, Quando la paura diventa logo, Associazione Culturale
AllucinaNazione.
12) Hary Kelvin, Aberrazioni contemporanee, Cronache del duemila, 26 / 7 /
2001.
13) Ruben De Luca, Anatomia del serial killer, Giuffrè 2001, Milano.
14) Ruben De Luca, op. cit.
15) Eliphas Levi, Il rituale dell’ alta magia, Brancato 1996, Catania.
16) Hary Kelvin, Sperimentali ritrovi, op. cit.
17) Varianti del fetish con l’ aggiunta del travisamento del volto mediante
cappucci o maschere.
18) J. G:Ballard, Crash, Bompiani 1973, Milano.
19) John Milton, Paradiso Perduto, Mondadori 1984, Milano.
Francesco Barresi
Roma, luglio 2001
Testo critico tratto dal catalogo
“La quiete del Terrifico” (
Roma, Palazzo Ferrajoli – Benevento,
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Teologia della perdizione
di Lucia Spadano
Valerio de Filippis, con i suoi
lavori, sembra voler ricondurre tutte le esperienze di questi ultimi anni
riconducibili all’interesse per il corpo ad una unità diversamente fondata. Non
più l’appostarsi dietro la virtualità per poi tentare un vano radicamento nel
sé attraverso l’incremento di una violenza il cui bersaglio oramai non ci
appartiene più, ma la riconquista di quel bersaglio stesso con armi
apparentemente tradizionali. Le sue armi sono quelle della pittura e del
disegno, dell’invenzione simbolica e della prensilità nei confronti dell’arte
contemporanea, intesa quest’ultima come coesistenza storica di poetiche
consolidate e scaltrite sì dal contatto con la fotografia ed il cinema, con la
pubblicità e la manipolazione mediale, ma pur sempre pronte a rispondere in
proprio della loro strategia comunicazionale, della loro ambizione a produrre
significato. Ecco dunque che il corpo, martoriato, offeso, assalito, riappare,
al di là del mezzo usato, al di là del registro espressivo adottato, con tutta
la sua capacità di attrarre e respingere, di sedurre e di disorientare, di
coinvolgere e di annichilire. E’ un corpo segnato dal dolore, ma anche un corpo
che non rinnega il piacere che avrebbe potuto donare o donarsi. E’ un corpo
teso fino allo spasimo ma anche smarrito nei meandri della sua stessa tensione.
Il paragone può apparire azzardato e senz’altro per molti versi lo è, tuttavia
non possiamo esimerci dal notare che le opere più e meno recenti di de
Filippis, osservate così una accanto all’altra, una nell’atto di dialogare con
l’altra (o anche di contraddirla), evocano una chiamata a raccolta di sapore
Dantesco, quasi un concorrere al Giudizio Finale di chi è già stato giudicato e
condannato, e tuttavia ha ancora molto da dire, molto da rivelarci non su se
stesso e sulla tragedia di cui si fa portatore, ma sul dramma umano nella sua
interezza, nella sua infinita varietà che comunque ruota sempre attorno agli
stessi parametri, alle stesse contraddizioni, alle stesse forme di
incommensurabilità. De Filippis ama mostrarsi scettico sulla possibilità di
ricondurre ad un equilibrio il gioco con cui l’uomo è chiamato a misurarsi;
come un teologo della perdizione sembra propendere per l’insanabilità. Tuttavia
l’artista romano non si nasconde dietro le tecniche della riproduzione, dietro
l’apparenza della ripresa gelida e oggettiva, piuttosto egli forgia le sue
immagini con la mano e con il pensiero, con passione pari alla sottigliezza e
con irruenza pari all’abilità tecnica. E tornare a pensare in termini di arte legata
alla soggettività, all’interezza e all’esperienza della persona che agisce e
crea, vuol dire pur sempre proporre una forma di “elaborazione”, una strategia
di ricongiungimento alla soggettività binaria dell’ego di quella indistinzione
primaria che è il corpo, di quella insondabilità del vivente che la cultura del
visivo, seguendo le indicazioni di de Filippis, ci ha aiutato ad estroflettere
e conoscere come rispecchiamento in
qualche modo collettivo.
Lucia Spadano
Testo critico tratto dal catalogo “Teologia della perdizione”
Orvieto (TR) Chiostro di San Giovanni, 2002
E dalla rivista d’arte “SEGNO” (Pescara, gennaio-febbraio 2002)
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Valerio de Filippis -- Teologo della
perdizione?
di Philip Jenkins
Nelle opere più recenti di Valerio de Filippis, che si possono unire sotto
l'etichetta della teologia della perdizione, si possono distinguere le energie
distruttive che minacciano l'umanità, le quali sono di tal potere che sono
quasi irresistibili. “Carnevale o L'avvento della Grande Bestia” (2001) esprime
questo fenomeno tematicamente nel protagonista grande e malevolo che estende le
sue dita sul globo con la conflagrazione alle spalle.
Un conflitto violento fra maschile e femminile era evidente nei quadri
precedenti, ma una visione ancora più severa domina coloro che seguono.
Possiamo vedere nel “Corpus Hypercubicus di Dalì tra due fuochi” (2001) una
risposta al 11 settembre 2001 e la guerra in Afghanistan. L'artista mette in
primo piano l'immagine del Cristo daliniano e una delle teste primitive di
Giacometti, come se l'unica risposta adeguata fosse il rivolgersi al repertorio
moderno di immagini artistiche.
Valerio de Filippis adopera la forma tradizionale del trittico nei quadri più
recenti, ma questa scelta formale fa pensare più all'arte di Francis Bacon che
all’altare cattolico. Bacon usava il trittico per creare una dinamica fra
figure isolate, mentre de Filippis lo usa per suggerire un rapporto narrativo.
I due trittici “Snuff I” e “Snuff II” (2002) presentano la degradazione del
corpo umano al livello più personale della violenza ritualizzata.
Il fascino dell’obesità è una variazione sul tema della perdizione. Se in “Bondage
Iubilaeum II” (2002) l'artista dipinge una turpitudine morale, in “Freaks
Beauty” (2002) prova più gioia nella obesità graziosa.
La risposta italiana all'arte di Valerio de Filippis si preoccupa per la
visione difficile dell'artista. Il fulcro del dibattito che precedette
l'apertura della mostra a Palazzo Ferrajoli a Roma in ottobre 2001 era la
possibilità di accettare questa visione. Ed i quadri piú recenti esposti a la
XXIII edizione di Expo Arte a Bari e a la mostra in Orvieto in giugno 2002
suscitavano molta discussione per la loro tematica.
Comunque, ciò che colpisce me, è la plasticità della pittura defilippiana,
l'aderenza a materiali tradizionali, la mediazione della violenza nell’opera e
il campo epico che raggiunge tale opera di tanto in tanto.
Ed il pittore Livio Orazio Valentini (San Venanzo, 1920), conosciuto per la sua
reinterpretazione degli affreschi del Signorelli nella Cappella Brizio del
Duomo di Orvieto in 1985, sottolineó le capacità pittoriche di de Filippis in
una conversazione privata nel mezzo di una reazione orvietana scandalizzata.
Preferirei capire Valerio de Filippis come un messaggero in una tragedia della
Grecia Antica che presta testimonianza a un disastro terribile, e non come un
pittore tormentato da demoni personali. È il mondo tormentato che trova
un'espressione chiara nelle sue opere.
Philip Jenkins
Londra, 2002
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Oscena
progenie
di Francesco Barresi
“Sono l’Impero alla fine della
decadenza
che guarda passare
grandi Barbari bianchi,
componendo
acrostici indolenti,
dove danza il languore del Sole
in uno stile d’oro”
Paul Verlaine
Coraggiosa ed originale è la ricerca artistica di Valerio de
Filippis, che si sviluppa attraverso una provocatoria rappresentazione di
personalissimi abomini silenti e scultoree presenze di vuoti infernali,
riempiti a sprazzi solo dalla flebile luce della disperazione umana.
Definitolo in altre sedi come intellettuale della violenza velata,
tra lo strabordare dei cromatismi pittorici delle sue tavole, emergono allusivi
riferimenti alla drammaticità degli eventi umani, da cui forse l’autore stesso
è inesorabilmente e morbosamente attratto: la pittura di de Filippis è il
soddisfacimento catartico dei bisogni più inconsci di ogni essere umano.
Nei suoi quadri troviamo anche riferimenti ai cataclismi provocati
dalla guerra: un Cristo cubista, di daliniana memoria, è martoriato dalla
reazione omicida di un Occidente ferito e mutilato e dal fanatismo suicida dei
nemici dei culti occidentali. E così, l’atroce calvario del protagonista, tra
flutti impetuosi di esplosioni sanguigne, sembra essere vissuto e condiviso
dall’ autore, attraverso una passione ed un’empatia che, trasversalmente,
troviamo pure in tutte le sue opere.(1)
In quest’ottica, l’assunto introspettivo di Valerio de Filippis
non solo sembra pertenere propriamente all’ universo pittorico, fatto tutto di
slanci creativi basati su di un espressionismo shock, ma anche a quello
“radiografico”, dove l’autore immortala la realtà a lui circostante filtrandone
ciò che non sempre è visibile: de Filippis pennella con oculata malizia le
suggestive deviazioni della società moderna, attraverso enucleazioni policrome
che soggiacciono solo al suo estro creativo, malato e perverso.
E’ un’umanità corrotta e spezzata quella che ci offre l’artista
nelle sue opere, ma per questo meritevole di rispetto autentico, quel rispetto
che nasce dalle emozioni che le stesse sono capaci di suscitare. Palindromi
della contestazione, i ritratti di de Filippis spiazzano per la loro crudeltà
intellettuale le nostre menti razionali e retrograde, attraverso la
rappresentazione della carne decontestualizzata.
Apparentemente disturbanti, le tele del de Filippis sono la
semplice raffigurazione oleo- radiografica della realtà circostante cui lo
stesso autore appartiene.
Il genio estremo di de Filippis produce un’arte oscura e perversa,
ma nello stesso tempo dannatamente rassicurante. Le sue figure plastiche,
difatti, se pur mostruose sono raffigurate attraverso una edulcorata
rappresentazione delle aberrazioni della natura umana: freaks, demoni, abietti
assassini e criminali sociopatici sono ritratti, sul tragico carrozzone del
circo defilippiano, nella loro stessa malata, ma nel contempo, compassionevole
naturalezza.
L’autore sublima la propria pulsione dell’efferato e realizza
tutto ciò attraverso angosciosi quadri che raffigurano l’immota dualità della
natura umana: quella benigna, subordinata e quella matrigna, dominante.
Ed eccolo, l’universo malato da cui è attratto il de Filippis,
popolato da fantasmi che, rappresentandoli, riesce ad esorcizzare e in questo
modo allontanare.
Grandi madri informi e palesemente ermafrodite ne sono poi la
tragica rappresentazione: quella di un’umanità distorta, malforme e ripugnante,
ma al tempo stesso così dignitosamente autenticata dalla carica poetica che
l’autore riesce a restituirle.(2)
Alle inquietanti figure pittoriche delle putride matrone
defilippiane, si contrappongono le plastilinee figure femminee che, tese tutte
in uno sforzo posturale smaccatamente seduttivo, maliziosamente si esibiscono
nei loro corpi nudi al nulla, cui sembrano tendere anche per opera di un
killer, forse seriale, in letale agguato omicidiario.(3)
La donna, la Grande Seduttrice, è punita e ne è scarnificata
l’essenza del male che si assopisce, sornione, nella profondità delle sue calde
rigogliose viscere.
Oscena progenie di esseri informi che annacquano nel mantra
magmatico dell’oblio infernale, sembrano essere le caricature dello stesso
orrore, ma pure velate di una melanconica tristezza, che permea di sé
l’immagine della decadenza, ostentandosi penosamente allo spettatore attonito
ed ormai incredulo di fronte a tanta abietta concupiscenza.(4)
Torvo è difatti l’animo di chi vive il guasto universo di de
Filippis, che riesce ad ottundere chi lo visiona ed attanagliare chi lo legge,
anche attraverso un insito cinismo emozionale di diabolica e rara maestria, che
solo l’autore è capace di infondere allo spettatore sgomento.
Ed ancora un osceno Dio priapico sembra avere nelle proprie mani
il destino, oramai segnato, del mondo e della sua sordida umanità, stretta in
una morsa tra nuvole di oscura fuliggine infernale.
Il tempo e le ideologie sono stravolti, sospesi quasi in una nuova
dimensione limbico - atemporale, dove l’autore ripercorre le gesta nefande
dell’umanità e solo quelle.(5)
Sembra quasi che il de Filippis voglia in queste sue tele
esprimere tutto il proprio rancore nei confronti di una razza, quella umana,
cui egli stesso appartiene e, forse, ne condivide anche i suoi fantasmi malati
quanto nascosti, colpevole della propria degenerazione ed autodistruzione,
evocando così simbolismi archetipali propri del maledettismo pittorico.
Ma l’apoteosi del ”malsano” è forse rappresentata maggiormente dai
lavori che appartengono al filone “ideativo-religioso”, dove è rappresentata la
denuncia (neanche tanto velata) dell’Istituzione religiosa come noi la
conosciamo. Il Bene traslato e decaduto è oramai una lontana parodia del
principio esasperato dell’assoluta dedizione ad un credo, i cui corrotti
depositari della legge divina, una volta indefessi sessuofobici incalliti ed
ora pedofili passionali e devoti satanisti,(6) esprimono la propria povertà
morale rappresentata da una perdizione nella caducità della Dea carne, espressa
da liberatori ed ineluttabili onanismi solipsistici.(7) Pittura della religione
infernale, raffigurazione della perversa devozione clericale, incarnazione del
caos irrazionale di un ultraterreno demoniaco ci fanno scrivere, con le parole
di Huysmans che “i satanisti sono mistici a livello immondo, ma sempre
mistici”.
La decadenza dei protagonisti, la loro espressione di un
incontrovertibile, esasperato ed ossessionante nichilismo, marciano solenni ed
austeri in un misticismo corrotto e simbiotico con l’autore, votato
all’obbedienza dell’oblio e della terrena dissoluzione umana.
NOTE
1) Il Corpus Hypercubicus di Dalì tra
due fuochi
2) Bondage Iubilaeum II
3) Le armi reciproche
4) Freaks Beauty
5) Carnevale o L’avvento della Grande
Bestia
6) Trittico della Messa Nera
7) Snuff I e Snuff II
Francesco
Barresi
Roma,
2002
Testo critico tratto dal catalogo “Teologia
della perdizione”
Orvieto
(TR) Chiostro di San Giovanni, 2002
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La decadenza
della civiltà moderna
di Anna Rita Daqua
L'associazione
culturale AllucinaNazione presenta le ultime opere di Valerio de
Filippis, il cui lavoro è frutto di anni di attenta ricerca su quelle che sono
le aberrazioni e deviazioni della società moderna. La sua arte è tenebrosa e
perversa, surreale ed estrema, come se volesse esplicare in tutti i sensi la
realtà che si nasconde nell'alter ego dell'uomo. La produzione pittorica
di de Filippis investe lo spettatore attraverso nuances fredde,
agghiaccianti, dure, così come dura e disperata è l'autoanalisi che l'uomo
compie su se stesso. Autore di opere di grande impatto visivo, che colpiscono
al primo sguardo, con amore o con odio, ma mai con indifferenza, de Filippis è
un autore moderno e accorto che attraverso un disegno plastico e una linea
nervosa si fa manifesto di un'epoca. La sua è un'arte morbosa, che si nutre di
incubi e di una tavolozza di neri e rossi in cui la luce non si presenta mai
per illuminare ed avvolgere atmosfere calde ma anzi a freddare la scena, quasi
a volerla congelare nella mente dello spettatore. Ineguagliabile nel
rappresentare il fascino perverso della violenza e gli uomini che, come ciechi,
vagano alla ricerca di una bellezza che non sanno identificare, in un mondo nel
quale gli egoismi impediscono di comunicare e le tecnologie, come internet,
spezzettano ulteriormente fra gli uomini un linguaggio negato.
Ho voluto
presentare così questo artista, ispirandomi a brani tratti dalla critica e,
come Presidente dell'associazione che ne promuove la mostra, invito a guardare
in profondità e con occhio attento le opere di de Filippis ed ogni singolo
scenario, sui problemi e sulle tematiche dell'uomo contemporaneo, al fine di
riportare la funzione dell'arte a quella della riflessione.
Anna Rita Daqua
Roma, 2002
Testo critico tratto dal catalogo “Teologia
della perdizione”
Orvieto (TR) Chiostro di San Giovanni,
2002
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S/M Racconti di un io smembrato
di Tania Giuga
Dalla foglia d’oro alla vernice,
dall’acido ai polpastrelli, dal pennello alla carne, dalla polvere di marmo
all’acrilico.
Ora, questo incappucciato d(io) delle
voglie di Valerio de Filippis, risana il triste destino dell’io infranto,
cauterizza e agglutina i frammenti delle sue vagheggiate vicende attraversando
l’ostentato disfacimento della trasgressione carnale.
S
La pittura può darsi (dare se stessa)
- aggiungere a chi la guarda – l’integrità della memoria collettiva. Ma questa
memoria non contempla necessariamente una traduzione in racconto prosastico,
non consta di una successiva partizione in capitoli e paragrafi collegati da
una ragione poetico-logica e discorsiva; si propone tutta insieme come
intuizione Bergsoniana; verifica in un attimo un’intera galassia di passati,
presenti, futuri.
L’elemento di continuità dovrebbe
essere organizzato attorno allo "spavento" (Fear), al timore/tremore
che trovarsi al mondo, nel tempo, equivale a esserne potenzialmente espulsi in
ogni momento. Dunque la tortura dell’io, il suo involontario smembramento
trasposto in alchimia dei materiali è dis(soluzione) – cupio dissolvi –,
estasi anoressica o sovrabbondanza bulimica di dettagli e rumori di fondo, ma
anche tranquillità nichilistica. Se siamo immersi nell’attualità dell’istante,
quel nulla che diverremo può essere sfiorato da una vertigine, da una
riappropriazione embrionale del nostro stato pristino. La paura, per distrarsi,
cerca e trova nomi alle cose (S/M, slave&master, schiavo/padrone, ruoli
definiti) e ci interroga sull’esibizione di uno statuto di verità che espresso
in modo creativo diventa liberatorio, non più spaventoso (Fearful).
M
Emeth era la sigla che trascritta sulla fronte del
Golem, il gigante di fango caro alla tradizione ebraica, permetteva ad esso di
animarsi. La cancellazione del prefisso "E" lasciava la
parola Meth (moribondo) che dava facoltà al signore del Golem di
stabilirne la morte. Se "arte" ha a che fare con
"artificio", dunque finzione ma anche esecuzione di un manufatto
attraverso la manipolazione di materiali eterogenei, individui che a seconda
delle stime relative all’utilità e alla scala di priorità dei valori propri di
un sistema sociale sarebbero stati stigmatizzati come artisti, saturnini o
portatori di aberrazioni, invece che affondare in una privata quanto silenziosa
nevrosi, raggiungono la trasparenza del messaggero, del padrone del proprio e
talvolta dell’altrui destino (un Golem metaforico?). Costoro imbastiscono per i
loro simili lo specchio rovesciato del non detto per chiarirne i contenuti
psichici segreti, creano il Golem (le opere, i manufatti…) che non perirà a
comando, perché se pur plasmato per e dall’uomo, possiede un’autonomia
superflua in quanto all’uso eppur necessaria per la recherche che ognuno
è chiamato a compiere dentro sé, ricerca che sopravvivrà indomitamente alla
volontà di assoggettamento del suo creatore, alla pervasività del suo super io.
Tania Giuga
Bologna, 2003
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Eros e primordio al tempo dei mutanti
di Felice Cervino
E’ sempre l’umana
carne, dannatamente battuta da tutti gli oltraggi, ad essere violata ed
immolata: decade tra violenza e godimento ed è sempre l’antica brama del potere
a determinare le distanze tra le invenzioni delle colpe, giustificative delle
punizioni, e le esorbitanze delle pene: i dannati sono esclusi dalla pietà, se
è divina sentenza quella che condanna al dolore infinito. Ricordate il
compiacimento di Virgilio quando Dante per essere in perfetta sintonia con il
crudo/giusto volere divino maledice Filippo Argenti nel canto VIII dell’Inferno
e disprezza il suo pianto? “Benedetta tua madre che ti ha partorito” sentenzia
la saggia guida e, con il pellegrino che si fa vanto d’averlo avuto per maestro
e autore, si compiace dello strazio che il misero dannato subisce ad opera
degli altri infelici come lui. Costretto a sfogare l’ira rabbiosa su sé stesso:
“...In se medesimo si volvea coi denti”. Valerio de Filippis è attento
all’infernale condizione dell’umana carne, dannata negli accessi delle rinunce
e in quella dei sensi sfrenati, esorbitati dai freni convenzionali e pertanto
più sintonici all’esempio di natura che libera le sue energie. Travolge così,
con l’impeto del caos la lunga fatica delle terrene cose che mirano, nel tempo
che le consuma, a farsi cosmo: i faticosi equilibri sono spazzati via. Nulla
quindi è più precario della condizione che ha senso nell’armonia. E’ superfluo
soffermarsi sui naturali eventi che dominano la scena del mondo: le esorbitanze
della viva carne che travolgono vittime e carnefici, riutilizzano il mito
eterno del caos che deride gli equilibri e le armonie, gode del puro istinto, a
immagine e somiglianza di natura, giustifica il transito vitale. Con la sapienza delle sue tecniche, del
cromatismo adeguato, delle forme all’evidenza censiva nell’azione coinvolgente,
l’artista trasferisce nel suo immaginario, e lo fa con propositivo coraggio,
abbattendo nei suoi percorsi l’acquiescenza delle convenzioni, fasi salienti
della storia umana. Conferma dunque che l’ordine deriva dal caos, evidenziando
proprio la supremazia della memoria del primordio che vince le strategie
tecnologico - progressive nelle umane sorti. Insorgono nei tempi in successioni
disastri evoluti in violenze: coinvolgono spazi sempre più vasti, vanificando
argini e ripari. Da quando gli uomini inventarono gli dei e alla loro onnivora
violenza vennero via via sostituendo sempre più umane qualità, è stata sempre
la loro carne ad essere immolata. L’età degli eroi non è mai stata immune da
stragi e disastri: il mare della ferocia è stato sempre vasto di sangue umano
in tempesta.
L’età degli uomini ha arricchito di vittime la terra desolata
e quando l’uomo si è sostituito alla natura e si è trovato di fronte solo a se
stesso, lo sforzo d’essere artefici d’umanità ha visto in caotica mescolanza,
in disastri incoercibili, altre vittime e carnefici ai punti di non ritorno,
alle svolte epocali in cui le vesti e le maschere non sono valse a garantire
all’esorbitanza del potere economico il dominio che appaga i desideri più
arditi. Umana carne, dunque, per crocifissione, stupri, disastri, smembramenti,
piaceri da guardoni che godono dell’altrui sadico godimento, della promiscuità
che si esaspera ai limiti dell’ambiguo proprio nel tempo dei mutanti, il cui
corpo è dominato dalle protesi, dai meccanismi che rispondono alle esigenze
della cibernetica, della clonazione, dei sistemi d’allarme ricchi, più di
Briareo, d’occhi artificiali. E’ sempre la macchina umana, ma quanto, a
diventare proiezione, oggettivazione, immagine e somiglianza del genericamente
umano. Morto l’uomo sociale, la società, e divinizzata l’evoluzione
dell’ingegneria cibernetica, vige l’isomorfismo tra meccanismi ben ingranati, e
l’uomo, tra cervello umano e sistema elettronico, fantascienza e fantapolitica;
il servo-meccanismo è condanna all’entropia: la sorte si rinnova in vesti
evolute dalla natura all’uomo, alla macchina che elabora dati in riduzione del
cosmo, con umani residui, in sistemi cibernetici. Allora ecco i disastri, gli scontri
frontali, gli eccidi, le deflagrazioni, le macchine perfette che trapassano i
loro guardiani tra smembramenti che rivelano
terrestri-extra-ragioni-della-terra, mani prensili colme d’orrore, mutilazioni
che sommano meccanismi biologici all’indistinto umano che saluta i novelli
androgini con mammelle al silicone e sessi intercambiabili, magari con rapidi
scatti e innesti a baionetta, proprio come si fa per gli obiettivi delle
macchine fotografiche, o meglio si faceva ieri, un millennio fa. Eppure
nonostante tutto l’antica brama persiste tra bagliori di morte, vampe a gara
d’eruzioni vulcaniche, esplosioni che fondono ghiacci e deridono il sole per
titanici abbagli.
Felice Cervino
Napoli, 2006 (tratto dalla
rivista d’arte V.O.G.U.T. 5 n° 1 -
2006)
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METAMORFOSI DELLA PERCEZIONE
di Lorenzo Canova
Di fronte alla banalità crescente e al caotico affollamento
delle immagini mediatiche, davanti all’intricato labirinto generato dal
disordine del mondo, ci si chiede sempre più spesso se le arti visive possano
ancora avere un ruolo di indirizzo, di selezione e di raffinamento dei nostri,
spesso troppo confusi, stimoli percettivi e della nostra vita sensoriale.
L’arte negli ultimi cento anni si è posta spesso di fronte a
questo problema fondamentale, che ha avuto una parte importante nella grande
speranza delle avanguardie storiche di trasformare la vita e il mondo secondo i
loro canoni estetici. Non a caso, per esempio, il Futurismo ha cercato un
coinvolgimento diretto e consapevole con i mass media e un loro rinnovamento,
com’è successo con la radio rimodellata dalla visione profetica di Marinetti,
senza trascurare l’apertura definitiva ad una dimensione polisensoriale da cui
sono scaturite le basilari e feconde teorizzazioni e sperimentazioni sul
tattilismo e sul polimaterismo che hanno avuto un ruolo centrale nella storia
dell’arte del Novecento. Analogamente, anche la videoarte ai suoi primordi era
concepita perlopiù come una critica e una risposta possibile a quella che gli
artisti consideravano la pericolosa mediocrità del medium televisivo, senza
dimenticare poi il rapporto complesso e dialettico della Pop art con il mondo
delle merci e della comunicazione massificata giunto a influenzare anche il
linguaggio pubblicitario da cui inizialmente aveva esplicitamente ripreso
immagini, stimoli e suggerimenti.
Su questo filone si è del resto mossa una parte significativa
dell’arte attuale, attenta alla contaminazione con i media e a una loro
possibile rivisitazione critica ottenuta anche grazie alla sua differente
temporalità e alla sua più meditata dimensione esecutiva che permette una
riflessione approfondita che si lega alle ricerche più avanzate nel campo della
pittura, della scultura e dell’installazione, della fotografia, del video e del
digitale con le loro indagini che analizzano e rileggono la stratificata e
contraddittoria realtà delle immagini contemporanee.
Questa volontà e questa tensione contengono forse una residua
e vitale particella di quella componente utopica e costruttiva che ha animato i
movimenti di avanguardia del Ventesimo secolo, un frammento di quella volontà
che affidava all’arte il compito di cambiare il mondo e di trasformare in
meglio la vita degli uomini, di costruire opere, case e città seguendo un
progetto radicale e onnicomprensivo di metamorfosi totale.
Questa mostra intende così seguire questo difficile sentiero,
creare una sorta di viaggio sensoriale ed emozionale di sublimazione in cui le
opere entrano in un preciso e forte rapporto con un allestimento ideato per
dialogare con l’architettura e la città, con quella dimensione metropolitana
che rappresenta non a caso lo scenario centrale delle relazioni culturali ed
esistenziali del presente interpretato dagli artisti con gli strumenti affilati
di una visione che riesce a essere critica senza perdere la qualità e il senso
della sua rappresentazione.
Gli artisti che partecipano a questa esposizione riflettono
quindi sulla violenza e sulla bellezza, sulla leggerezza e sulla devastazione,
sulla perdita di senso dei simboli e sulla loro rinascita all’interno
dell’opera d’arte, in un progetto dove proprio l’allestimento recita un ruolo
fondamentale e dove le opere degli autori si uniscono (anche grazie a un video
chiarificatore di Alfonso Spezza) in un percorso che intende portare lo
spettatore alla perdita delle sue sicurezze, trascinarlo in una situazione di
incertezza e di spiazzamento, fino a condurlo a una trasfigurazione della sua
visione e della sua sensorialità, spingendo il suo sguardo verso un
rinnovamento radicale indotto dalla forza dell’esperienza estetica.
Le immagini di lotta e di fisicità si uniscono pertanto a
trame di millenaria levità ornamentale, i detriti lasciati dal crollo
definitivo dei nostri convincimenti si uniscono alle parole di una poesia che
dialoga con la vanità emblematica e mortale del fumo, i corpi si disfano nel
sudore e si smaterializzano nella luce per comporre l’armonia dissonante di
questo cammino di perdita e di mutazione tracciato grazie alla presenza
rigeneratrice delle opere d’arte.
Valerio de Filippis medita su un mondo segnato dalle schegge
e dai detriti di una distruzione in corso dove la morte e lo splendore si
incontrano in un rapporto dialettico che trova le sue ragioni ultime nella
consapevolezza allucinata di un prossimo e definitivo annullamento.
Le fattezze dell’artista compaiono nel tessuto fluido del
colore che scorre sui frammenti dove le immagini sembrano ricomporsi dopo la
loro stessa scomparsa donando un nuovo significato alla presenza fisica del
corpo dell’autore che riemerge dal magma di un plasma vitale divenuto
territorio di una riflessione sulla vita e sulle cose.
La riflessione esistenziale si trasforma dunque nel motivo
che unisce le diverse esperienze dell’artista, i suoi linguaggi espressivi
differenti e allo stesso tempo unitari, riempie di significato l’annientamento
di una stanza occupata da macerie dove i brandelli di immagine alludono al
ritrovamento e alla perdita dell’essere e del suo senso.
L’artista ci ricorda dunque la presenza incombente della
fine, annunciata anche nei pacchetti di sigarette che, con un messaggio non
distante da quello delle antiche nature morte, aumentano il piacere della loro
fruizione grazie al pericolo annunciato nella loro veste colorata e reso ancora
più penetrante dalle bellezza delle frasi dei poeti che De Filippis usa per
comporre i messaggi che ricordano e celebrano la presenza della morte celata
nel piacere affidato alla sostanza effimera, corrosiva e simbolica del fumo.
Lorenzo Canova
Roma, 2007
Testo critico tratto dal catalogo SENSIA (edizioni LAYOUT, Roma, 2007)
Sensia, Castello colonna, Genazzano (RM) - Anno 2007
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Dal reale all’immaginario
I poeti del
sogno
di Paolo Levi
Valerio de Filippis ha una drammaticità di fondo che sarebbe
piaciuta al critico Giovanni Testori. Le sue radici, infatti, affondano
nell’Espressionismo esistenziale, con richiami all’espressività barocca.
Pittore di pathos e di sofferenza, le sue immagini si presentano come
apparizioni polimorfe; sono presenze sospese che ci turbano e che sfuggono alla
ragione. Entrare nei suoi quadri è come aggirarsi in un paesaggio umano
continuamente mutevole, accogliendo un messaggio di solitudine.
Testo critico tratto dal “Catalogo dell’Arte Moderna- Gli
artisti italiani dal primo Novecento ad oggi” N.43 Editoriale Giorgio Mondadori- Milano, 2007
Paolo Levi
Milano, 2007
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Il
chirurgo di guerra
di Giovanni Monti
“Quello era il mondo, il grande mondo umano che non c’è più.
Sparito come Urano, come Saturno, come i giganti e gli dei
mitologici, come i centauri e le sirene.
Ne restano i simulacri, esseri umani finti ma condannati a
credere che esista ancora.
Sorpresi dall’avvento delle stelle fredde, inaspriti dal gelo
in cui stanno morendo i loro ultimi avanzi.”
G.Piovene
Gli uomini non
smettono di scegliere la guerra, non si accorgono che la guerra diventa sempre
più totale, probabilmente finale.
Non ci sono neppure
più feriti, nessun possibile sopravvissuto; allora Valerio, il pittore
chirurgico, si inventa un’altra missione: scoprire ciò che di umano ancora
emerge dal caos, resti smembrati, bruciati, mutilati e persino deturpati da
imprevedibili mutazioni (1).
Una ricerca disperata,
forse vana eppure ostinata, la pervicace volontà di restituire una
testimonianza, la possibilità per l’uomo di scegliere altro, assecondare la
natura, ascoltare la carne, proteggere la vita.
Per fare questo
Valerio de Filippis esplora campi di battaglia ancora velati dal sudario del
fumo, dalla cappa greve delle radiazioni, attraversa sconfinate desolazioni
post nucleari e ce le racconta senza infingimenti, in tutta la loro solenne
mostruosità.
Ma rinvenendo una
reliquia umana sporca di terra, tatuata da grumi e rivoli di materia organica,
sa offrirla al nostro stupore come in un’ostensione, per celebrare un grande
mistero: come la sacralità dell’uomo possa sopravvivere alla sua stessa follia.
(1) Perspective (2004)
Giovani Monti
Bologna, 2007
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PRS TRC: Preistorico splendore
di Livia Bidoli
Primitivamente istoriati, i corpi dei guerrieri di de
Filippis si muovono attraverso flessuosità plastiche in universi di disincanto
esponenziale. Paradisi d’inferno fantascientifico delineano narrazioni
sincopate in sincronia con il tenero livore di alcuni tratti, dipinti dalle
lucide spanne di touches de couleurs vibranti sul rosso e
sull’argento. Ancora, sulle braccia, quasi trattenute nell’impervio sostare
della tensione muscolare, si innestano vene appena sollecitate, invariabilmente
mobili nel loro peregrinare tra fatiche umane e d’interiore ed eroica purezza.
I guerrieri tacciono, immersi nella plasticità desueta di un turbinoso vigore,
accogliendo forzatamente tattili metafore di un luogo dell’altrove. Sembra
quasi di udire il tragico canto del pittore attraverso di loro, come asseriva
Kafka a proposito delle sue silenti sirene, scrivendo a Milena: ”Cerco sempre e
ancora di comunicare qualcosa di non comunicabile, di spiegare qualcosa
d’inspiegabile, di raccontare qualcosa che ho nelle ossa e di cui soltanto in
queste ossa si può fare esperienza”(1).
L’altrove rimosso determina la pittura rutilante di de
Filippis conducendo in uno spazio simile ad un’intercapedine dalla quale
finalmente si possano percepire i sussurri del risveglio da un canto reso muto
in un passato remotissimo. Il superamento agognato, stremato sulla soglia di
una tenebra accentuatamente divelta dagli sprazzi di colore che come tagli
infliggono ferite sul legno, è sempre una lotta che nelle parole di Bataille
trova la sua dimensione descrittiva: “L’essere raggiunge il fulgore accecante
nell’annientamento tragico”(2). L’apoteosi di questo movimento acceca per il
furore espressionista proprio nelle gambe sezionate di “Il giocattolaio”,
emblema stesso della frantumazione dell’io in un mito, il cui passo scorre
aldilà del tempo in cui gli è stato concesso di nascere. Un Dio disperso tra la
polvere, i cui granelli microscopici derivano da parti fratturate nel momento
stesso dell’impetuoso slancio. Un gesto disperatamente nichilista come afferma
di nuovo Bataille: ”Il nulla stesso è il suo giocattolo: non vi si inabissa che
per lacerarlo e illuminarne la notte al quale non sarebbe mai pervenuto se
questo nulla non si aprisse totalmente sotto i suoi piedi”(3).
La fiamma della candela sul capo dell’ultimo quadro,
“Accidia”, appena terminato, non è che il simbolo di un fuoco desto, nonostante
questo annientamento, in tutti gli sprazzi incrinati della pittura, in tutti
gli acerbi spruzzi di matrice rubino, una circolazione vitale che ha il sangue
come suo memento fulminante e fondante. Il teschio rosso di “The Circle” non fa
che reiterare una ricerca di ubiquità nell’animo, quasi a lacerare quelle
barriere che non permettono di trasferirsi in luoghi appena immaginati. La
forza sovrumana dell’evocazione non fa che richiamare l’attenzione su un atto
doppiamente leggibile, sia nel senso di annichilimento sia come correlativo
oggettivo di un magma folgorante sul punto di esplodere.
Ed allora ci si accorge che il viaggio di Ulisse è ancora di
là da venire, il Ciclope come le sirene lo attraggono in absentia, come
se il vero viaggiatore non fosse lì, direttamente nel quadro, ma da qualche
parte, ai lati, ad osservare qualcosa che accade unicamente perché il pittore
vi si è tramutato, essenza stessa e raffigurazione, forse qui, forse altrove.
Azionando ex novo i meccanismi che irrompono sul legno dipinto,
incidendo pensieri in volo rapido, in traiettorie obnubilanti che, spargendo
autentiche grida d’amianto, irrigano con gli elementi puri le cromie variabili
di un viaggio. Nelle viscere di un mondo capovolto, ove le stesse emozioni si
fanno corpi assoluti, un brillare verde-dorato di un mago o forse di un
iniziato, “PRSTRC”, raggomitolato con il braccio e la mano tesa (come tutti i
corpi dipinti nei quadri) a mostrare un ciondolo con un cerchio ed un drago, un
anello dei Nibelunghi in tutta certezza conquistato. A questo punto i guerrieri
lamentano con le stesse parole di Frika dal II° atto di La Valchiria di Richard
Wagner: “Con misterioso senso/ mi vuoi illudere:/ che di eroico dovrebbero/ gli
eroi mai operare,/ che fosse proibito ai loro dèi,/ il cui favore soltanto
opera in loro?”(4)
·
Franz
Kafka, Lettere a Milena, traduzione di Ervino Pocar, Oscar Mondadori 1979.
·
Georges
Bataille, Il labirinto, traduzione di Sergio Finzi, SE, Milano, 2003, p. 24.
·
Ibid,
p. 25.
·
Richard
Wagner dal II atto di Die Walküre (stesura 1851-56, la prima teatrale il 26
giugno 1870) , traduzione di Guido Manacorda: “Mit tiefem Sinne/ willst du mich
täuschen:/ was Hehres sollten/ Helden je wirken,/ das ihren Göttern wäre
verwehrt,/ deren Gunst in ihnen nur wirkt?”.
Pubblicato in: GN1/
3-17 novembre 2008 Titolo completo: PRS
TRC - PREISTORICO
Domus Talenti, Roma, via
delle Quattro Fontane, 113 -
Periodo: 17 - 30
settembre Anno: 2008
Livia Bidoli
Roma, 2008
__________________________________________________________
VALERIO DE FILIPPIS NELLE CAVITÁ DELL’ANIMO UMANO
VERSO L’ENTROPIA INCONSCIA: TRA PIANI INCLINATI
E CORPI DOLENTI
di Nilla Zaira D’urso
Corpi che giacciono tra
i detriti della psiche dolente che soffoca qualsiasi tentativo di liberazione
dalla sofferenza. Sono i corpi che sembrano scivolare su piani inclinati verso
gli accenti complessi del dolore. Come la Cavalcata
delle Valchirie di Wagner, irruente e impetuosa, alla stessa maniera si
presenta all’osservatore la pittura di Valerio de Filippis.
Una riflessione
pittorica sull’inafferrabilità della materia psichica dolente, che svuota ogni
membrana corporea e fa di essa materia inerme, incastrata dai vortici psichici.
Una pittura che segna
trasfigurazioni inconsce che marcano i territori del corpo umano, a volte privo
della testa (“The Circle”, “Burnt”, “Il giocattolaio”), ma innervato e teso
come se un’ultima pulsione interiore volesse salvare ancora un anelito di
speranza dalla profonda solitudine della psiche come in “The Circle”. Ma è
un’illusione, forse.
Nella propria
solitudine, nel continuum “gioco” della potenza della natura stessa, viene
presentato l’essere umano.
La solitudine esclude la
psiche da ogni contatto con il presente, con la vita. L’inconscio della materia
corporea prende forma da una lotta, quasi una diatriba, tra la vita e la morte,
tra un’illusione e la realtà, tra l’uomo e sé stesso, tra l’io e un super io.
Lo spettatore può
constatare le titaniche e potenti macchie di colore, che svelano la materialità
del legno che tutto contiene: il dolore, le urla silenti dell’essere umano, le
paure, il dominio di una psiche afflitta, privata dall’entusiasmo di vivere.
L’idea concettuale della
matrioska viene fuori da queste dodici tavole di legno che, come dei feretri,
inglobano corpi, che contengono la psiche, che, a sua volta, svuota i propri
dolori sul corpo umano stesso, il quale appartiene al più grande contenitore:
il mondo dove tutto si miscela, si disfa e si disperde. La materia continua il
suo viaggio. Eppure qualcosa rimane ancora nell’universo: un’entropia di
sofferenza e resistenza allo stesso tempo. Sembra che un’entropia di patimenti
sia rimasta ingabbiata nelle tavole di legno di de Filippis. L’entropia di un inconscio collettivo, come direbbe Carl
Gustave Jung, che sottomette il corpo umano e tutti quei segnali, che rimandano
all’attuale tecnologia informatica, anch’essi incorporati nei simboli nella
dolente psiche umana e nella forza della natura che nulla risparmia.
L’essere umano diventa l’apparenza di un’apparizione.
Apparizione di un meccanismo a cui l’uomo soggiace.
Così in “C18”, l’artista
presenta l’uomo nel suo cercare di elevarsi oltre la dinamica di un macchinario.
Una ricerca di
spiritualità che evade dai canali del corpo e lascia allo spettatore la
sensazione di un richiamo a forze ancestrali, divine. Come una richiesta di
aiuto, di salvezza.
La pittura di Valerio de
Filippis sintetizza l’essenza catartica dell’arte ed è il pittore stesso a
compiere il viaggio più difficile e tortuoso nelle cavità del proprio animo tra
buio, paure, ombre, rabbia e sofferenza, dimostrando padronanza tecnica e
talento artistico e creativo nel ritrarre la figura umana.
Vedere le opere di
questo artista permette di capire quanto la complessità della psiche unisce
tutti gli esseri umani in un mondo, quello attuale, che sembra indossare una
mostruosa maschera che nasconde ogni differenza, ogni necessità, ogni virtù e
fa dell’uomo una macchina priva di pensiero e psiche.
Testo critico relativo
alla mostra “PRSTRC”
(anno 2009) presso lo
spazio espositivo
Il Laboratorio, Roma
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PRS TRC
di Cecilia Paolini
L'uomo, in quanto essere razionale, è in grado di
provare dolore e piacere al di là della contingenza fisica, in una dimensione
che è soltanto e profondamente esistenziale. Ma il “male di vivere”(1) è pura
conseguenza della razionalità che distingue l'uomo da qualsiasi altra creatura:
in un'età dell'oro immemorabile, vagheggiata già nella mitologica Arcadia(2) ,
la felicità era costituita dal connubio tra l'uomo e la Natura. Quello stato di
grazia, ormai perduto, era dato da un'inconsapevole simpatia con l'eterno ciclo
del mondo terreno. Con la razionalità, l'uomo ha perso la capacità
dell'innocenza, per cui il dolore si è trasformato in angoscia esistenziale e
il piacere è null'altro che mancanza di dolore, ossia un effimero inganno. Le
“magnifiche sorti e progressive”(3)
hanno condannato l'umanità a un'ansia perenne, allontanandola dalla sua
vera natura. Da questo stato non v'è alcuna via di fuga; la consapevolezza,
però, può suggerire all'uomo l'unico comportamento degno per la sua esistenza:
non combattere contro il dolore esistenziale ma viverlo profondamente con il
coraggio e l'eroica rassegnazione di un Titano.
In PRS TRC, la condizione umana è rappresentata fin dal titolo,
cifratura, privata delle vocali, della parola “preistorico”. Il soggetto, che
fisicamente richiama agli eroi mitologici, è accucciato come a voler ritornare
nella posizione fetale; dietro di lui un magma informe rappresenta tutto ciò a
cui ha rinunciato: non a caso la definizione anatomica dell'uomo è massima
verso gli arti inferiori, decisamente distaccati dal fondo, mentre si fa meno
netta verso la testa, simbolicamente sede della razionalità. É dunque la
rappresentazione di una nascita, molto più drammatica di quella biologica
perché inizio della coscienza di sé: viene raffigurato il momento in cui l'uomo
perde l'innocenza, si allontana dalla Natura ed è costretto a diventare l'eroe
della propria sorte, ineluttabile e unica identità umana. “The Circle” è il
contrappunto logico. L'anatomia eroica di memoria policletea(4) è qui portata all'esasperazione, tanto che le
membra sembrano disfarsi costrette a una tensione impossibile da sostenere. In
questo caso il volto del soggetto non è rappresentato, non già perché si va
definendo il processo di consapevolezza per la sorte umana; è piuttosto il
momento finale di quel processo: nel momento in cui l'uomo riesce a intuire la
conoscenza di se stesso, trasforma inesorabilmente la razionalità in pazzia. Il
connubio con la Natura garantiva all'uomo primitivo l'inconsapevolezza per il
più grande ignoto con cui l'umanità è costretta a confrontarsi: la morte. Aver
abbandonato lo stato di natura, implica l'impossibilità di accettare con animo
quieto la caducità della propria esistenza. Il terrificante “memento mori”
simboleggiato dal teschio, è, nella costruzione dell'immagine, l'elemento
focale verso cui l'occhio dell'osservatore è attratto. La vita umana è come il
corpo rappresentato: non si può conoscere né la propria nascita, di cui non si
hanno ricordi, né la propria fine. L'“oscillare impotente tra noia e dolore”(5)
rappresenta tutto ciò che esiste tra l'inizio e la fine, ossia tutto ciò che di
se stesso può conoscere l'uomo. Il riscatto da questa condizione è
l'atteggiamento titanico dell'eroe che accetta incondizionatamente la propria
sorte costruendo un destino che vada al di là della propria esistenza fisica. I
due lavori di de Filippis hanno notevoli rimandi figurativi: la costruzione
della luce di taglio che definisce la volumetria è senza dubbio derivata dallo
studio degli scenari caravaggeschi. Il disfacimento del corpo umano, confuso in
modo visibilmente compiaciuto in un miscuglio di colori scuri, che suggeriscono
marcescenza, richiama alla memoria l'arte di Francis Bacon, anche se nelle
opere di de Filippis la tematica dell'uomo-eroe impedisce una trattazione delle
anatomie fortemente distorta come nel pittore irlandese. La scelta di lavorare
per grandi dimensioni non è casuale: amplia il sentimento terrificante dello
spettatore che, posto di fronte alla rappresentazione della propria identità
umana, non può che prestare attenzione alla propria coscienza.
NOTE:
(1) La citazione è tratta dalla poesia “Spesso il male
di vivere ho incontrato” di Eugenio Montale (dalla raccolta “Ossi di Seppia”
del 1925). L'espressione, divenuta proverbiale, fa riferimento al malessere
esistenziale connaturato alla vita. Nella poesia, Montale cita la “divina
Indifferenza” come unico rimedio; in tal senso è particolarmente significativo
il riferimento alla nuvola e al falco dell'ultimo verso, elementi della Natura
che si elevano al di sopra delle miserie terrene: contro il male esistenziale,
l'unico atteggiamento possibile dell'uomo è assumere una stoica indifferenza.
(2)Non a caso
l'Arcadia è il luogo abitato da Pan, dio immanente, spirito di tutte le
creature, simbolo di una spiritualità che non si giustifica con la
trascendenza, ma con un connubio intimo con il ciclo della Natura. L'uomo
moderno ha imposto la sua superiorità nei confronti del resto del creato in
nome della razionalità, ma è proprio in virtù di questo distacco che ha perso
la felice innocenza del suo stato primitivo.
(3)La citazione
è tratta dalla poesia “La Ginestra, o fiore del deserto” di Giacomo Leopardi.
Il poeta fa riferimento al concetto di sviluppo della scienza e della tecnica
che sembra non avere limiti e soprattutto inganna l'uomo facendo vagheggiare la
felicità nel progresso. Si tratta, però, di una evidente utopia: la ginestra,
simbolo dell'umana condizione, contro la lava del Vesuvio, che costituisce il
suo destino tragico, può solo coraggiosamente risorgere. Nella debolezza umana
è insita la propria identità: la dignità dell'uomo è nell'accettazione della
propria condizione rinunciando a qualsiasi velleità di supremazia contro le
forze della natura.
(4)Si
confronti, a tal proposito, l'anatomia del soggetto di The Circle con il
Diadumeno o il Discoforo di Policleto. Perfino la postura, leggermente tesa su
un fianco, è un puntuale richiamo al ritmo scultoreo chiastico (ossia la
costruzione anatomica basata sul preciso equilibrio tra flessioni e tensioni
degli arti del corpo) teorizzato nel celebre “canone” dello scultore argolide.
(5)Si fa riferimento a una celebre frase di Arthur
Schopenhauer per il quale la sofferenza umana è data dall'oggettivazione della
volontà, per cui la liberazione dal dolore è data necessariamente dalla
negazione del mondo fenomenico. É significativo considerare che il filosofo
individua tre gradi per la liberazione dal male della volontà: il primo di
questi gradi è costituito dall'Arte, ossia la contemplazione nel completo
rapimento estatico. La contemplazione dell'arte, però, è un rimedio fugace, che
deve essere seguito dalla Morale e dall'Ascesi (Arthur Schopenhauer, “Die Welt
als Wille und Vorstellung” (Il Mondo come Volontà e Rappresentazione), 1819.
Cecilia Paolini
Roma, 2010
Testo critico tratto dal
catalogo della mostra collettiva itinerante
“L’Aquila non si muove –
L’immutabile identità di un popolo”, Roma, Palazzo Ferdinando di Savoia
(anno 2010)
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“L’EVOCAZIONE
DELLA FIGURA”
di Alessandro Ingafù del Monaco
Se assumiamo il “Postmodernismo” come
paradigma descrittivo della nostra epoca, dobbiamo osservare come il sistema
capitalistico maturo ha stravolto quelle categorie, quei concetti come quello
di Arte, che ciascuno probabilmente presume di poter definire. In una società
globale, decentralizzata, è davvero difficile trovare definizioni. Trovarle può
voler dire cadere in una presa di posizione ideologica che pretenda di dare una
natura a ciò che non la ha più. Le idee, le immagini, si sono svuotate di significato
per colpa di una assuefazione alla dimensione mediatica, sono simulacri,
rappresentazioni autoreferenziali che hanno perso di autenticità ma soprattutto
di oggettività. Dunque, nulla può esser più fuorviante della pretesa di
comunicare verità o di avere definizioni oggettive da appiccicare come
etichette alle cose. Questo è un grande problema per l’Arte Contemporanea. Già
nel XX, ma certamente nel XXI Secolo non è possibile definire l’Arte senza
muoverle violenza, ciò da luogo ai tripli carpiati di un arte-artificio
promossa dal Mercato, ma anche a realtà meno conosciute di grande valore. Nel mondo delle immagini, la semplice
rappresentazione si è svuotata di capacità comunicativa, non ha più la capacità
di trasferire al fruitore la verità del rappresentato, ecco che entra in gioco
la dimensione Evocativa, alla quale Valerio de Filippis si appella per aprire
nuovi orizzonti per l’Arte del XXI Secolo. Questo straordinario Artista con una
grande esperienza alle spalle ha rinunciato alla dimensione oggettiva-rappresentativa
per dare spazio a quella della Recherche
nel senso più puro del termine, priva di inutili sofismi e intessuta di quel “di più” che apre la
dimensione spirituale, che rende la sua opera autentica e che trascende quel
confine obnubilato tra cosa e Opera d’Arte. Valerio de Filippis è un
innovatore: sono ormai cinque anni che sperimenta una complessa tecnica (che
l’autore ancora non svela) della quale gli va riconosciuta la paternità. Grazie
a questa nuova tecnica, che consiste nel versare su una tavola di legno posata
orizzontalmente colore fluido, l’Artista strappa dall’astrazione liquida di
questa materia i chiari e gli oscuri che mai rappresentano ma che evocano la
figura. Valerio ricerca quel folle obbiettivo che gli permetta di superare il
confine tra astratto e figurativo attraverso una evocazione apparentemente
involontaria. La dimensione evocativa è fondamentale e capace di disegnare una
nuova autenticità per l’Arte del XXI Secolo: in questa si ritrova l’assenza del
discorso messaggero di verità. Nell’evocazione non c’è messaggio, non c’è
verità, ma chiama ad “essere” forze sconosciute che trovano il loro contenuto
di verità nel senso di alètheia nella
quale, secondo Martin Heidegger, l’essere si ri-vela come un uscir fuori
dall’oblio e dall’essere nascosto; e tuttavia il termine primo di questa resta
pur sempre l'oblio, il ritrarsi dell'essere a ogni sua rappresentazione
nell'ente. Stiamo parlando di un’incoscienza che diviene coscienza nella
disposizione degli elementi formali, che donano l’alètheia e il contenuto non a livello discorsivo, a livello di logos, ma esclusivamente a livello di
Forma. Stiamo parlando di un’Arte priva di definizioni ma non priva di
contenuto. Stiamo parlando di un contenuto “dialettico”, che non pretende di
annunciare nessuna verità ma che si denuncia come menzogna e che racchiude nei
suoi sedimenti la Storia e il Tempo, un contenuto profondo e attuale che non è
leggibile ma solo interpretabile.
L’Opera di Valerio de
Filippis ha una forte rilevanza individuale: emerge un grido, di dolore o di
piacere non importa, con un grande valore catartico che trova nutrimento in un
inconscio ricco di sedimenti che scalpita per emergere. Una dimensione Dionisiaca
che è al contempo fuga e ritorno, e che testimonia nell’opera l’errare
dell’Artista. Per Valerio de Filippis l’Arte assume le sembianze della
necessità ineludibile, è chiamato a fare per la sua naturale capacità
catalizzatrice e di sintesi degli spazi che abita. E’ l’Uomo l’oggetto della
sua ricerca. Un uomo collocato in una dimensione scomoda in cui la dissonanza
della contingenza si concretizza in flutti di colori irrazionalizzabili. Nelle
sue opere non c’è distrazione, armonia, tantomeno una bellezza bugiarda.
Troviamo piuttosto temporalità, corruzione, deformazione; echeggia il senso
d’inquietudine che è quella dell’Artista e quella del momento storico. Un
Presente non bello e dal quale la bellezza potrebbe solo allontanarci in un
errare idealistico. La decostruzione dei soggetti è la stessa della
decostruzione dell’individuo, una astrazione della soggettività perpetuata
colpevolmente dalla disumanizzazione del nostro Tempo. Ecco che dalla
dimensione individuale, l’Opera di Valerio de Filippis acquisisce una rilevanza
sociale che ci impone degli interrogativi che non ci ha chiesto. Il brutto,
l’irrazionalità dell’esistente, l’assenza del senso non detta ma avvertita come
necessità dal fruitore che, criticamente interpreta i significati sempre nuovi
che nascono dalla vita interna all’Opera. In questo senso, le immagini di
Valerio de Filippis non sono riproduttive ma produttive, cioè prendono dal loro
interno quella dialettica con il loro esterno che le fa essere nel mondo e mai
astratte da questo. Nonostante ciò l’Artista attraversa dimensioni altre dal
mondo che ci rimandano a quell’interrogativo mai detto al quale dobbiamo, per
necessità, rispondere. Questa risposta dolorosa evoca quel rapporto con il
contingente, col nostro Tempo che disvela la necessità di una trascendenza ora
impossibile ma che l’Arte evoca. Senza darci la soluzione, senza essere
portatrice di verità, l’Arte di Valerio de Filippis ci spinge a ricercare
risposte in una chiave diversa da quella che abbiamo sempre considerato. Non è facile racchiudere tra la
circostanzialità delle parole un contenuto non dicibile ma presente. Le Opere di Valerio de Filippis sono di grande qualità, lo
stile ha superato la tecnica che rimane comunque veicolo della composizione
formale. In opere come “Figura” oppure “Figura 1” vediamo l’Artista che cerca
di controllare la forza incontrollabile di un colore che si espande. Questo
fiume di pigmento trova il proprio canale nella composizione volumetrica di
corpi adombrati e alieni. Schizzi, impurità, corruzioni del colore che non
rappresentano mai un compiacimento narcisistico ma piuttosto un’esigenza che
non può essere detta ma solo vissuta.
Opere come “Burnt” racchiudono consapevolezze ed essenze della caducità,
della finitezza che solo l’Arte sembra farci accettare. Ancora in
“Flames/Darkness” troviamo la casualità causata dall’Artista e il richiamo a
uno sporco del vivere che ci rimanda alle sovrastrutture costruite nella Storia
ma anche alla crudeltà dell’essenziale. Valerio de Filippis è un’Artista capace
di attraversare gli orizzonti della crudeltà e del non senso, le sue opere non
sono solo il parto di un idealizzato inconscio d’artista, in parte da questo
traggono alimento, ma è il sentimento della vita e per la finitezza, che si
concretizza grazie alla riflessione critica e intellettuale, che manifesta
contenuti senza dirli ma testimoniandoli, privi di verità ma con un contenuto
di verità intrinseca agli elementi sensibili dell’Opera. Valerio de Filippis
evoca una verità come alètheia che,
se per un verso si disvela, per l’altro rimane sempre in qualche misura in sé
stessa, in sospensione, e che solo una fruizione critica che non è mera
contemplazione può interpretare. Dai grandi schermi sui quali gli artisti
venduti dal Mercato, trovano spazio e fortuna rinunciando alla critica a causa
di una presa di posizione ideologica, sprofondiamo tra le strade popolari di
una grande città come Roma, nella quale il Maestro de Filippis vive la sua
Opera e disvela nuovi orizzonti per un’Arte senza definizione ma sempre viva e
figlia del Terzo Millennio.
Alessandro
Ingafù Del Monaco
Roma, 2010
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La Grande Seduttrice
di Cecilia Paolini
La collezione scelta per questa
mostra esemplifica in dodici opere uno tra i più importanti valori dell’arte di
Valerio de Filippis. L’uomo, da quando ha coscienza, combatte contro se stesso
una guerra di sfinimento: la razionale socialità lo spinge all’accettazione
passiva di qualsiasi inganno, è lo spirito apollineo che tenta di interpretare
la realtà secondo logiche semplici; d’altra parte, però, esiste una componente
dell’animo umano più tenace, che non ha paura del libero pensiero, che si nutre
di esaltazione per l’irrazionale e non si nasconde nell’uniformazione sociale
per quietare la paura della solitudine, ma anzi reagisce con coraggio
all’eventualità di rimanere unica. Artatamente, la Storia ha interpretato la
razionalità come la principale delle peculiarità umane, mentre è solo un palliativo
per tenere per forza a bada la componente bestiale dell’uomo. La via per
abbandonare lo stato ferino è piuttosto perseguire l’irrazionalità
trasformandola in potenza creativa, unica e vera caratteristica che
contraddistingue l’essenza umana. La sindrome bipolare che attanaglia l’uomo,
combattuto tra razionale rassegnazione e cosciente creatività, può essere
risolta attraverso l’Arte, la Grande Seduttrice che libera l’uomo
dall’opprimente convenzione del razionale. Le dodici opere scelte in questa collezione
mostrano il percorso individualistico, fin “troppo umano” della ricerca
pittorica di Valerio de Filippis: la versione visibile, talora talmente
terrifica da non lasciare spazio a una compiacente pietà per chi sceglie la
tranquilla soluzione di una rassegnata razionalità massificata, è solo l’ultimo
atto di un esercizio spirituale ben più profondo, messo in atto
dall’esaltazione della fatica fisica per dare sfogo alla pura immaginazione. Se
si dovesse tracciare, dunque, un percorso verso la perfetta sintonia con
l’irrazionalità, ovvero la potenza creativa, questa collezione dovrebbe essere
narrata dalla serie PRS TRC: è la condizione umana, ancestrale e preistorica
(parola di cui il titolo è semplicemente la versione devocalizzata), che porta
in sé la tensione al dinamismo, alla “volontà di potenza” che è vita stessa. La
progressiva coscienza di sé porta l’uomo ad assurgersi a “Oltreuomo”,
perfettamente consapevole del dinamismo caotico della realtà e della potenza
creativa che lo contraddistingue: in questo senso “Sisyphus” e “The
Circle” sono l’esemplificazione dello stato di coscienza. Si percepisce,
però, un terzo stato, una condizione in cui la battaglia esistenziale è giunta
alla fine e all’Oltreuomo si è sostituita una creatura nuova, che dell’uomo ha
forse una vaga parvenza: “Tentativo di apparizione II” dimostra quanto
l’uomo abbia bisogno della sua lotta atavica, di quella sindrome che lo fa
oscillare tra razionale bestialità e divina potenza creativa, perché altrimenti
è solo nichilismo inevitabile e distruttivo. Il valore seduttore e liberatorio
dell’Arte è, infine, massimamente espresso in “Una Venere Occidentale II”,
significativamente l’unica opera che ha per protagonista una donna: nella
violenta presa di coscienza della propria irrazionalità l’uomo crede di
possedere la propria potenza creativa, ma è inequivocabilmente e sempre solo
l’Arte che permette all’uomo di essere libero. L’unica nota tecnica davvero
importante da conoscere riflette il senso della ricerca figurativa: in molte
delle opere in mostra, il lavoro dell’artista è dato dalla difficoltà di
modellare materia informe non vincolandola attraverso una stesura pittorica
razionale, ma lasciandola libera di espandersi in un supporto opportunamente
preparato, modus operandi allegorico della potenza creativa lasciata libera da
ogni vincolo di ingannevole razionalità.
Cecilia Paolini
Roma 2011
Testo critico tratto dal catalogo “La Grande
Seduttrice”
Galleria d’arte “Arte e Valore”, Roma (a cura di
Cecilia Paolini)
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SupeResistenze
di Francesco Giulio Farachi
Cosa sono questi volti,
questi corpi, queste pose e figure che si fondono e si confondono in un
universo di caos nebuloso? Sono forse donne, uomini, o che altri, quelli che
Valerio de Filippis ritrae?
No, queste esistenze sono
oltre, sono al di sopra, sono appunto “super-esistenze”, fisionomie che
esplodono i limiti delle carni e della pelle, sconfinamenti dall’oggettività
del visibile, sono essenza e sostanza d’umanità e sono il suo demone, natura e
oltre-natura, fisicità spirito e tormento. O sarebbe meglio dire che sono
metamorfosi, trasmutazione che dalla materia si fa illusione (o no piuttosto il
contrario?), un guardare mai colmo. Come quando vedi e non ti decidi a staccare
gli occhi, perché sembra che ancora ci sia qualcosa, che qualcosa forse ti
sfugge, che un significato ulteriore si celi intorno le pieghe fra colore e
immagine, di nuovo un segno debba apparire.
La pittura stessa si
perde e si complica, abbandona alla superficie il proprio statuto funzionale e
formale, quello di ornamento e decoro puro, e si lancia al di là di un
orizzonte che è solo spirituale, dove cioè il dato fisico esiste quasi
esclusivamente come icona, come riflesso e deformazione sullo specchio corrusco
della psiche. Dissonanze, contrasti, ma anche al contrario amalgami e
contaminazioni, diluizioni e trapassi non sono perciò astratti aspetti visuali
e la ricerca sul colore non si limita ad essere semplicemente ben indirizzata
tecnica pittorica; ma con aspra assolutezza, tutto questo è atmosfera vitale e
totalizzante, aria e ambiente, circostanza e situazione, trasposizione in
luce/ombra di inquietudine esistenziale, un’inquietudine eccedente.
de Filippis lavora il
visibile, ma pensando all’invisibile e quindi la luce che gl’interessa non
illumina all’altezza del reale, ma si espande ai terreni della coscienza, alle
sue vertiginose supremazie. de Filippis lascia liberi i colori delle emozioni e
delle introspezioni, lascia che invadano e imbevano il sottostante reale,
lascia che amplifichino e coniughino gli elementi fisici e le sembianze, ne
rompano gli assetti, la continuità, la coerenza. Non c’è spazio ulteriore,
l’esistenza al di sopra del quotidiano non ha margini per i ruoli e le
apparenze. Lo vedete? Si parla di noi, di ognuno di noi. Perché ogni essere
umano vive l’esistenza e sperimenta una “super-esistenza”, una dimensione e una
coscienza di sé di cui solo chi le vive ha precisa percezione, che son nascoste
agli occhi degli altri, che non si rivelano se non a tratti e con infingimenti;
essenza che pure c’è, aleggia e padroneggia e guida tirannica feroce ogni
minuto aspetto della vita e dell’esserci. Il pittore non cerca quindi un’ideale
innocenza, “un fuor di luogo e di tempo” che sarebbe fantasia o chimera, ma
mette di fronte a sé il “qui e ora” con tutto il suo affastellamento di
esperienze, di dolore e gioia, di contraddizioni, di paure e utopie, di carichi
emotivi e di ambiguità che fa densa l’esistenza, che la sovraccarica fino alla
lacerante aggressività del vero.
A volte questo modo di
dipingere sembra essere condotto deliberatamente come aperta sfida al
perbenismo dei ben pensanti, unisce classicità di forme a un senso di moderna
tragicità o di moderno cinismo, sfodera la violenza della bellezza. E’ un atto
di ribellione, uno scuotimento delle coscienze, una “r-esistenza”. L’intimità
dei corpi, quella dei momenti del chiuso di una disperazione, ha un che di
sublime ed eroico, è come un’autoaffermazione contro il mondo esterno, le
minacce e i condizionamenti; al tempo stesso è un’intimità che si costringe al
confronto, che ristabilisce la continuità fra interiorità e realtà oggettiva,
che fa della propria nudità e naturalezza il terreno comune riconoscibile per
una rivendicazione di essenzialità e verità del mondo. L’arte è così un
percorso di avvicinamento a sé, all’essere umano, e l’intensità con cui questo
percorso viene programmato e realizzato si riversa, con la tensione proprio di
una opposizione, sulla percettibile matericità del colore, nel predominio mai
raggiunto dei toni, nella crudezza con cui i sentimenti solcano strati nel
procedimento pittorico. L’immagine si costruisce con forza e con passione, la
“super-esistenza” proprio come l’esistenza.
Francesco Giulio Farachi
Termoli (CB), 2013
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Derive
di Cecilia Paolini
Per non avere paura e affrontare una
situazione di forte disagio, come la prigionia, i soldati catturati dal nemico
si raccontano storie, la propria vita, o, in caso di isolamento, ricordano a se
stessi episodi vissuti, intrecciando esperienza e invenzione. L’esercizio della
memoria, l’atto di trasmettere a qualcun’ altro quanto osservato e appreso
determina spesso la sopravvivenza, se si stabilisce quel filo continuo con
qualcuno che capisce e perpetua la funzione del narrare, riversando a propria
volta le parole di un’esperienza intima e personale. Come per la parola, sia
scritta o detta, esiste un linguaggio, più universale, dato dalla sembianza.
Esiste l’immagine di noi stessi che forzatamente vogliamo appaia, perfetta e
piacente per il comune e contingente senso dell’estetica, ma la sembianza è la
vera natura del nostro aspetto: l’evidenza delle imperfezioni congenite o del
tempo, le trasformazioni che la vita ha apportato ai connotati, tutti quei
piccoli o grandi segni che identificano l’essere come unico e per questo
straordinario; a un occhio che sa ascoltare narrano la propria storia, questa
sì perfetta in virtù dell’irripetibilità.
La vita, di per sé, obbliga
all’atteggiamento eroico di porre la propria concentrazione sulla ricerca
dell’autorealizzazione. L’uomo-eroe è colui che pone se stesso al centro di una
sfera di influenza data per nascita a ogni essere umano, ma soltanto chi non ha
paura di se stesso e delle proprie reazioni è capace di imporre la propria
energia vitale in ogni azione che compia, modellando quella realtà che il
destino gli ha posto dinanzi.
L’interpretazione
del tema della mostra di de Filippis si origina da questa considerazione per
cui il segno visibile nel corpo è simbolo delle battaglie, capitate o
autoimposte, che l’uomo ha deciso di combattere con il coraggio tipico di chi
non avrebbe avuto comunque altra scelta.
Tra
i dipinti presentati in mostra, compaiono esempi da sempre compresi
nell’iconografia eroistica: Saulo nell’atto dell’atto della sua caduta per via
di una folgorazione che non avrebbe mai desiderato ma che accetta trasformando
la sua intera esistenza tanto da divenire il più celebre tra i discepoli di
Cristo;(1) Ettore, costretto a lasciare la giovane moglie per affrontare una
guerra di cui non capisce il senso e dalla quale non farà ritorno; la stessa
Andromaca, che pur sapendo dell’ineluttabilità della partenza del suo sposo
guerriero l’implora con ferma dignità di non abbandonarla.(2)
Accanto
a queste eterne figure, simboli della nostra cultura, rese nei dipinti di de
Filippis con esaltante senso di umanità, si pone l’uomo comune, definibile così
soltanto perché il proprio nome non compare nei racconti biblici o mitologici,
ma la cui voce e imprese sono narrate dalla Storia dell’umanità e si vanno
perpetrando dai secoli dei secoli con scenografie e dettagli sempre diversi.
In
questo eterno e ricorsivo divenire, la Storia dimostra ogni volta il coraggio
dell’essere umano nel non sottrarsi alla vita che gli si pone di fronte, scelta
spinta a volte fino a un autolesionismo che ha il senso della libertà, il
valore della conoscenza.
In
questo senso la tecnica pittorica di de Filippis segue puntualmente il
significato iconologico dell’uomo-eroe: le tavole presentate in mostra sono
letteralmente istoriate, incise dal colore, completamente snaturate della loro
superficie liscia per assumere sembianze multiformi, dalle increspature
profonde e campiture sature; com’è, d’altra parte, non solo il corpo umano, ma
la coscienza, scolpita da ciò che capita, ma ancor di più da quanto decidiamo
che debba capitare.
La
riflessione sul senso del corpo come manifestazione dell’esperienza eroica
umana ha decretato una ricerca espressiva nuova: non si tratta di una
realizzazione asettica di uno studio sull’espressività umana, quanto piuttosto
un umanismo interpretativo degli affetti e delle emozioni. Per la prima volta
de Filippis palesa amore per il soggetto figurato, non più solo soggetto
estetico, ma oggetto delle attenzioni esistenziali dell’autore. Questo è un modus pingendi inedito per de
Filippis: la scoperta della compassione per le umane vicende, di un umanismo
che cerca innanzitutto comprensione.
(1) Flames- Darkness IV (2012)
(2) Ettore e Andromaca (2012)
Cecilia
Paolini
Roma,
2013
Testo
critico relativo alla mostra personale congiunta “Derive”
Luogo
espositivo dell’Istituto Superiore Antincendi, Ministero degli Interni.
Anno
2013
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UNA PRESENZA NASCOSTA
di Claudio Abate
Non appena
scoperta l’arte di Valerio de Filippis sono stato colto dalla curiosità di
capire meglio quali idee e quali gesti avesse già prodotto la sua mano: una
tela, che riempie di energia il mio laboratorio, mi ha sempre suggerito l’idea
di conoscere più a fondo l’artista.
Una volta
esplorata la sua pittura, ho sentito che avrei dovuto ospitare una mostra per
capire davvero il suo mondo perché non mi sarebbero bastate le immagini, una
visione non materica.
Ci sono artisti
che parlano di sé, ce ne sono altri che raccontano più quello che accade fuori;
de Filippis, a mio parere, percorre entrambe le dimensioni. Al limite di questi
due spazi si pongono le mani dei suoi soggetti: un capolavoro di espressività
attraverso il quale de Filippis squarcia il velo del disincanto per portare
sulla scena la grazia e l’ossessione che comunicano i corpi.
Nel corso della
mia carriera mi sono sempre fatto guidare dall’intuito e, devo dire, la maggior
parte delle volte gli artisti che ho fotografato hanno rivelato il loro talento
al pubblico e alla critica.
Anche stavolta
seguo l’istinto e mi affido al linguaggio nuovo e senza tempo della pittura di
Valerio de Filippis per comunicare un’idea di quanto sta accadendo nel panorama
artistico contemporaneo.
Quella che
vedrete allo Studio Abate non è una mostra che veicola messaggi di facile
comprensione o dove sia sufficiente uno sguardo distratto o svagato; è
un’esposizione di immagini pittoriche che contengono emozioni stratificate e
sempre vive nei sentimenti che esprimono e nell’immaginario nel quale si
vengono a depositare.
Claudio Abate
Roma, 2014
Testo critico tratto dal catalogo “Il male oscuro della pittura” Roma,
2014
Roma, Studio Abate - a cura di Duccio Trombadori, anno 2014
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IL MALE OSCURO DELLA PITTURA
di Duccio Trombadori
Valerio de Filippis vuole dipingere il male di vivere con intensità
gestuale e sprezzo dichiarato delle buone maniere.
Non c'è nulla di artificiale o di artefatto nella sua immagine compiuta.
Egli descrive il furore della vita sotto varie forme del simbolo o
dell'allegoria. E sembra quasi cercare l'effetto sgradevole dei contrasti di
forma, luce ed ombra, quando la materia cromatica gli prende la mano e impone
il suo magma.
Come presa da 'male oscuro' la pittura crea e mangia la forma, si afferma
come potenza autonoma attraverso lampi di luce sulfurea ed emerge come sostanza
incandescente dal vulcano della energia espressiva.
Siamo in presenza di
un immaginario scelto in simultanea con l'azione pittorica. Ogni resa visiva ci
appare lacera e quasi indistinta, come uno sporadico 'flash' scattato su un
paesaggio dai contorti inusitati che sembra alludere alla condizione
'infernale' in cui versa l'elemento umano.
Uomini, anni e vita
scorrono davanti ai nostri occhi e sembrano sorpresi in atteggiamenti che ne
contraggono le membra, le divaricano e le torcono come specchio di una
sofferenza interiore(1).
Le figure sono fissate
al lampo di magnesio da un osservatore fulmineo, che si accosta come
affascinato dall'accoppiamento improvviso di due corpi, dalle anomalie motorie(2),
dagli sguardi catatonici, dai volti lacerati dall'età e dalle figure femminili
in fiorente primavera che sembrano stampate sulla patina di una rivista di moda(3).
Siamo nel cuore di una
narrazione che suggerisce visioni intertestuali, un flusso continuo di
esperienza vissuta trasfigurata per analogia dell’umano al post-umano, dove
appaiono spezzoni di architetture metropolitane, luci fosforescenti messe a
fuoco dall’obbiettivo(4): una mano emerge dal fondo bituminoso, in equilibrio
di luci nella notte, come fotografata da un’automobile in corsa(5); il primo
piano di un uomo in rosso viene incontro in prospettiva aggettata sullo sfondo
di vernici rugginose, di plastiche bruciate(6): e un nudo ripreso di tre
quarti, con l’aria di ‘prigione’ senza tempo, mostra la spalla allo spettatore,
col viso semi-illuminato, le luci violente, le colature di vernice e il
fermentare di materia monocroma che appiattisce lo sfondo(7).
Che tipo di mondo descrive Valerio de Filippis
e di quale ‘universo orrendo’ (direbbe Pasolini) vuol essere lucido testimone?
Tra plastiche argentate, tessiture di gommalacca, carte, colle, resine e
vernici diverse, egli ci parla di ‘demoni’, di ‘mutanti’ e di strane figure
d’oltretomba, lèmuri a figura d’uomo che all’uomo s’appaiano come ombre
profetiche ed esiziali(8)
E' tutto un gran teatro di simulacri questo apparire di 'hollow men' di
fronte a una natura decomposta che sembra un retromondo ed è parafrasi del
mondo dove lo sguardo si posa come 'muto ospite' di fronte ad un bruciante
richiamo di realtà sottolineato da allucinazioni della fantasia. Il pittore
segnala le sue immagini come 'astratti furori' o simboliche moralità in un
paesaggio consumato al calor bianco degli idrocarburi, metafora di armonie
biologiche spodestate dalla violenza tecnica, dai fragori e rumori della guerra
in cui si risolve, come dice Macbeth, la favola insensata della vita. Così, in
modo quasi spettrale, compaiono strani ritratti, come segni linguistici
arbitrari che indicano possibili vie di comunicazione in uno scenario da 'Blade
Runner' di un mondo giunto al 'grado zero' della solitudine.
Carica di disperazione vitale, la pittura illumina le più esemplari
banalità quando le associa al giuoco calcolato della fantasia: i corpi
contratti, le protesi dell'accoppiamento erotico, i flussi naturali della vita
e della morte si presentano come la parodia visiva di drammatiche verità
esistenziali.
Grazie alle figure degli 'androidi' deformati dalla forma e dal colore
(gialli sulfurei, neri bituminosi, rossi scarlatti) e le apparizioni di scenari
apocalittici e mitologici (per esempio: una 'Nave di Ulisse' appare sul fondo
oscuro di una notte in tempesta, mentre la osserva in primo piano un vecchio
dall'aria di vaticinante Tiresia)(9) Valerio de Filippis tesse una trama
apocalittica che esalta in modo coinvolgente il potenziale puro della materia
cromatica.
Sul piano espressivo il pittore è sensibile al procedere tumultuoso della
emotività ed interpreta in modo originale una certa tradizione nordeuropea (dai
grumi colorati di Nolde fino alle varianti postmoderne di Lupertz e Polke) ma
la sua vocazione formale è ben piantata su una forte radice plastica di
impianto veristico o iper-reale che modella poderosamente l'immagine dei corpi
umani e ne fa oggetto di fervida indagine morfologica. E in questa intersezione
di formule si precisa compiutamente l'accento stilistico di una pittura che
persegue consapevolmente l'amalgama del lato visionario dell'immagine con
quello drammatico-esistenziale della figurazione.
(1) Gregor IV (2012)
(2) Figure serie W -mod. 1a (2012)
(3) Davanti alla Legge (2012)
(4) Korva (2006)
(5) Hand 1 (2006)
(6) Il Terzo Assalto
(7) L’uomo (2008)
(8) C18 (2008), C
23 (2008), Il demone perduto (2012), Mutante (2008), Spleen
(2009),
Sickcyborg (2008),
L’uomo 675 (2009)
(9) La nave di Ulisse
Duccio
Trombadori
Roma, 2014
Testo critico tratto dal catalogo “Il male oscuro della pittura”
Studio Abate - Roma, 2014
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L’iconoclastia del visibile
di Alessia Carlino
“Come sarà
raffigurato l’invisibile?
Come sarà ritratto ciò che è senza figura?
Come sarà
delineato ciò che non ha quantità, né grandezza, né limiti? Come sarà
specificato ciò che è senza forma? Come sarà dipinto con colori ciò che è senza
corpo? Quando tu abbia visto che colui che incorporeo si è fatto uomo a causa
tua, allora farai l’immagine della sua forma umana, quando l’invisibile sia
diventato visibile per la carne, allora raffigurerai l’immagine di lui che è
stato visto, quando colui che nella sovrabbondanza della sua natura è senza
corpo e senza figura, incommensurabile ed in temporale, allora riproduci la sua
forma su di un quadro, ed esponi alla vista colui che ha accettato di essere
visto”.
Giovanni
Damasceno
Difesa delle Immagini Sacre
Esiste
un sentimento iconoclasta nelle opere pittoriche di Valerio de Filippis,
un’iconoclastia del visibile che lascia trapelare suggestioni della materia e a
cui la forma si piega in modo duttile e mai univoco.
La
pittura di de Filippis possiede una matrice plastica, i pigmenti densi, saturi
si stagliano sulla tela come se volessero narrare un’altra storia, differente
dall’ immagine prodotta dall’artista, autonoma e invisibile, celata tra i gesti
sapienti del disegno.
Il
primo aspetto preponderante del lavoro di de Filippis risiede nell’ancestrale
dicotomia tra astrazione e figurativismo. La pittura cerca di giungere al reale
manifestandosi nella materia corposa, l’artista inscena la lotta laddove la
volontà di astrarre, di far vincere l’inafferrabile, diviene il comun
denominatore stilistico della sua opera.
de Filippis
ha alle spalle un lungo percorso professionale, la devozione all’arte viene
vissuta in maniera totalizzante, per afferrare la tecnica, per trovare il
giusto equilibrio con la tela, per esprimere la propria urgenza esistenziale
anche attraverso repertori iconografici forti, dediti a raccontare questioni
sociali dal grande impatto emotivo.
Negli
anni l’artista riflette sulla creazione di mondi fantastici, sullo sviluppo di
un piacere tecnico dove dipingere diviene uno strumento di evasione e di edonismo
assoluto, un sentiero che inevitabilmente percorre nonostante la volontà, in
alcuni lassi temporali, di abbandonare la pittura per tuffarsi in altre realtà
lavorative.
La
pittura è destinata a rivolgersi allo sguardo, poiché, come accadde in reazione
alla Bisanzio iconoclasta, “la materia conduce all’immateriale”. de Filippis
attraverso il gesto pittorico restituisce l’immateriale, accenna
all’intellegibile per dare forza ad ogni singola pennellata, i sensi, condotti
dall’immagine, divengono lo strumento per accedere alla realtà e far si che
trionfi il visibile.
La
dicotomia tra astrazione e figura si manifesta in tutta la sua immanenza,
smaterializzando il quadro per dare voce all’essenza pittorica dell’opera.
Eppure
l’artista sente nel suo impegno la necessità di conquistare l’astratto per
liberarsi definitivamente della figura, un conflitto interiore che diviene
evidente in ogni suo gesto, poiché lo scopo ultimo del suo lavoro risiede nella
volontà evocativa del concetto, nel limite invalicabile del pensiero dove la
memoria suggerisce rappresentazioni in cui la tecnica è al servizio
dell’effimero.
Il
verbo si è fatto linea, contorno, forma, composizione, cromia, laddove il
quadro cerca di trasmettere allo sguardo l’impressione di un’apparenza fisica
che diviene in prima istanza ”lo stato sensibile stabilito a priori dal
pittore nello spazio dato” in cui si manifesta la percezione immediata
dell’opera senza più “alcuno effetto, né trucco, né arbitrio”.
de Filippis scardina il reale per entrare nel
campo dell’indefinibile, come suggerisce il famoso aforisma di Delacroix, egli
aspira ad un linguaggio che possa lasciare un segno emotivo anche senza
rincorrere la figura, nutrendo la vista di un misticismo incorporeo che nasce
dalla materia cromatica e cresce nel gesto pittorico.
La
forma stabilisce un’intima connessione d’intenti senza divenire fine a se
stessa, l’artista coglie il senso ultimo del medium per mostrare al mondo la
visione intellegibile dell’anima in una costante tensione dove la logica
delimitazione esteriore è in perpetua contrapposizione all’invisibile
dell’astrazione.
La
pittura di Valerio de Filippis è il manifesto di una sintesi percettiva,
l’appello concreto del soggetto che si traduce pensiero per ricordare alla
vista i procedimenti intellettivi della memoria.
L’invisibile
vince la sfida e si figura come unico e reale protagonista dell’ekphrasis
pittorica.
Alessia Carlino
Roma, 2014
Testo critico tratto dal catalogo “Il male oscuro della pittura” Roma,
2014
Roma, Studio Abate - a cura di Duccio Trombadori, anno 2014
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CONFITEOR
di Cecilia Paolini
Un allestimento
sperimentale per celebrare il ritorno alla pittura di un vero artista e di un
grande amico a cui tutto lo staff di ART G.A.P. è legato dall'anno della
fondazione. Nella mostra "Confiteor" Valerio de Filippis espone due
opere soltanto, di grandi dimensioni, frutto di una meditazione sul senso
dell'esistenza portata avanti da decenni.
La Crocefissione
(“Glittering Christ”) e “The Circle”: la vita spirituale e la morte terrena, il
sacrificio divino e l'esistenza umana costituiscono i temi, opposti e
complementari, delle due opere d'arte in mostra. Grandi nelle dimensioni,
enormi nella profondità dei significati legati all'iconografia scelta: l'uomo e
Dio, Cristo e la coscienza umana. Valerio de Filippis, dopo due anni in cui
esperienze artistiche diverse dalla pittura lo hanno impegnato a tempo pieno,
torna all'antico e portentoso "mestiere" del pennello e del colore
con un'esposizione intima, focalizzata sul tema dell'esistenza.
I due dipinti verranno allestiti al centro delle due stanze della galleria di
Trastevere, sospese dal soffitto come una presenza non solo fisica, ma
realmente viva. La Crocifissione, per altro, non è un dipinto unico, ma si
tratta di un'opera composta da una serie di tele che figurano i dettagli del
corpo martoriato di Cristo. Il dolore fisico, però, non è descritto attraverso
il segno evidente del sacrificio e delle ferite, ma viene assurto a emblema
spirituale, a segno che rimanda alla memoria senza indulgere nel dettaglio
truculento. Una pittura, dunque, sofisticata e carica di letture simboliche.
The Circle, invece, è dipinta su una tavola e raffigura un uomo dalle
dimensioni reali: in basso al centro un teschio richiama al memento mori che
costituisce l'elemento fondamentale della coscienza umana, ossia la consapevolezza
della vita e la sua normale conseguenza.
In occasione di questa mostra, ART G.A.P., e in particolare il curatore Cecilia
Paolini, è particolarmente e profondamente grata a Valerio de Filippis per aver
dato ancora una volta fiducia a coloro che, ormai da quasi un decennio, seguono
la sua intensa e importante carriera artistica.
Cecilia Paolini
Roma, 2016
Testo critico relativo alla mostra “Confiteor”, anno 2016
a cura di Cecilia Paolini, presso ART G.A.P. Modern & Contemporary Art
–
Roma, viale di Trastevere 105/a
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HOMO PARABELLUM
di Cecilia Paolini
È necessario coraggio per
guardare il mondo che si conosce cadere in frantumi, ci vuole esperienza per
cogliere l’importanza dell’estetica della guerra, della distruzione. Le opere
in mostra sono un’esaltante contraddizione tra il classico locus amoenus,
per la maggior parte dotta citazione tratta da celeberrimi repertori dell’arte
del passato, e uno scenario di guerra ben più complesso, in cui si rincorrono
immagini di distruzione e di violenza con la stessa naturale rappresentazione
di qualsiasi altro tema iconografico.
La cultura del passato,
sentita così prossima eppure vagheggiata dall’artista, irrompe nell’ambiente
contemporaneo e lo qualifica al di là dello squallore, come se, in
retrospettiva, l’istinto primario dell’uomo verso la guerra potesse assumere un
valore monumentale al vaglio della Storia. L’archeologia dell’uomo giustifica
se stessa e il passato rende importante la miseria del presente. Come per la
maggior parte del catalogo di de Filippis, la serie presentata in mostra non
coincide con un periodo isolato di studio, ma ha avuto una genesi lontana per
una esecuzione che si protrae nel tempo. L’interpolazione tra pacifico e
bellico, tra passato e presente, però, è la caratteristica che accompagna
praticamente tutti i lavori: nell’Estetica della guerra 02, eseguito nel
2009, quindi esemplare tra i primi elaborati su questa tematica, lo scenario
bellico contemporaneo lascia il passo a una citazione di Francois Boucher
(1742, olio su tela, Parigi, Louvre).; interpolazione ancor più forte è presente
in Ratto (2020): le bellissime fanciulle, tratte dal repertorio
rubensiano (Pietro Paolo Rubens, Ratto delle figlie di Leucippo, 1615 ca., olio
su tela, Monaco, Alte Pinakothek), non vengono rapite dai Dioscuri ma da due
ipertecnologici soldati. In questa caleidoscopica carrellata della pittura più
alta che la storia dell’arte ricorda, de Filippis non dimentica
l’autocitazione, evidentissima in Papaver rhoeas (2020) dove a sinistra
di chi guarda si mostra l’uomo piegato su se stesso, protagonista di molteplici
lavori dell’artista, ormai divenuta una delle sue cifre stilistiche più
conosciute (Figura, tecnica mista su tavola, 2007).
La guerra distrugge ma
costruisce la Storia, nulla è indistruttibile poiché niente si perde nella
memoria: uno spettacolo terrifico eppur reale che è astante nell’esistenza
dell’uomo.
Cecilia Paolini
Roma, 2020
Testo critico relativo alla mostra personale “Homo parabellum”, anno 2020
a cura di Cecilia Paolini, presso ART G.A.P. Modern & Contemporary Art
–
Roma, viale di Trastevere 105/a
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Homo Parabellum
Valerio de Filippis - Art GAP
Gallery
di Giovanni Lauricella
All’Art
Gap Gallery si può ammirare l’ultima produzione di quadri di Valerio de
Filippis, che continua la sua ricerca storica sull’uomo, colto nelle sue più
aberranti sfaccettature.
Anche se
questo punto non è spiegato nel comunicato stampa e nemmeno nel testo critico
di Cecilia Paolini, mi affido a quello che mi lascia intuire il titolo che, a
mio avviso, è emblematico della mostra in quanto evidenzia l’aspetto drammatico
della vita che subiamo, fatta di guerre e distruzioni per colpa dell’uomo,
appellato parabellum per l’appunto.
Distruzioni
e morte di una società disumanizzata che si ravvisano in una pittura che narra
lacerazioni sociali, di membra, di forme che si tendono oltre il possibile,
sino a dissolversi. Per capire bene la mostra e il quadro che più di tutti la
rappresenta e che vediamo nella presentazione, non si può fare a meno di citare
il testo di Cecilia Paolini: “L’interpolazione tra pacifico e bellico, tra
passato e presente, però, è la caratteristica che accompagna praticamente tutti
i lavori: nell’Estetica della guerra 02, eseguito nel 2009, quindi
esemplare tra i primi elaborati su questa tematica, lo scenario bellico
contemporaneo lascia il passo a una citazione di Francois Boucher (1742, olio
su tela, Parigi, Louvre).; interpolazione ancor più forte è presente in Ratto
(2020): le bellissime fanciulle, tratte dal repertorio rubensiano (Pietro Paolo
Rubens, Ratto delle figlie di Leucippo, 1615 ca., olio su tela, Monaco, Alte
Pinakothek), non vengono rapite dai Dioscuri ma da due ipertecnologici soldati.”
Una
pittura colta e impegnata che si scontra con la storia, quadri che tentano di
arginarne gli effetti più nefasti, un dramma teatrale che viviamo sulla pelle e
che una malefica regia ci costringe a non scendere dal palco. Insomma una
personale molto impegnativa, che Valerio de Filippis, con molta
professionalità, da artista consumato, gestisce con opere di grande efficacia.
Una mostra forte e di grande impatto che non delude le aspettative nemmeno
dello spettatore più smaliziato.
Giovanni Lauricella
Roma, 2020
Testo critico giornalistico, anno 2020
Honi soit qui mal y pense
di Marzia Di Marzio
Con questo titolo a dir poco evocativo si apre la nuova esposizione di Valerio de Filippis. Niente è come sembra, tutto è come appare: su questa dicotomia si sviluppa la storia della collezione che ha come filo conduttore l’erotismo. Un erotismo che prende forma in tutte le sue sfaccettature, per mostrarsi a volte patinato, a volte oscuro, a volte svelato, a volte celato. Riflessione su un tema “scabroso” agli occhi dei benpensanti, trattato con una sottile ironia che si prende gioco degli stessi. Quindi honi soit qui mal y pense come monito per andare oltre le apparenze, per non fare l’errore del giudizio affrettato dato dagli ospiti di Re Edoardo III, primo enunciatore del motto, quando lo videro raccogliere la giarrettiera caduta alla nobildonna prediletta. L’esposizione si compone di opere su tavola di diversa tecnica e formato, opere godibili dal punto di vista visivo, che puntano a scardinare, attraverso un’attenta riflessione, il retaggio culturale imposto dalla società nei confronti di questa tematica troppo spesso definita delicata. Honi soit qui mal y pense offre lo spunto per un viaggio attraverso il mondo dell’eros, rivisitato però alla maniera di un film noir degli anni ’50: donne svestite ma mai volgari sulle quali aleggia come una presenza oscura e voyer l’uomo. Un uomo senza volto, senza quella brama visibile di possessione per una donna posta dinanzi a lui senza inibizioni e barriere. Eros e perversioni trattate con rifiniture ricercate ed elitarie avvolte da atmosfere indefinite e a tratti irreali.
La sola componente morbosa e trasgressiva risulta essere l’occhio dell’osservatore che si trova davanti la scena: tende che si muovono, sguardi ammiccanti ma nascosti, divani caldi, corpi che si sfiorano, macchine con i fari che si insinuano nella notte… scenario allusivo percepito dal fruitore secondo le proprie pulsioni.
Esposizione, quindi, evocatrice di emozioni differenti a seconda delle proprie inclinazioni, tenendo sempre a mente che honi soit qui mal y pense!
Marzia Di Marzio
Roma, 2011
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Erotiche allusioni
di Cecilia Paolini
“Honi soit qui mal y pense”, si vergogni chi pensa male di qualunque inclinazione umana. È il motto dei Cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera, il più antico e nobile ordine cavalleresco del Regno Unito. Il nome, e di conseguenza il motto, nacquero per un equivoco, per aiutare una bella dama a indossare di nuovo la giarrettiera caduta accidentalmente durante un ballo… la malizia non esiste e, se pure fosse, sarebbe un gioco: nella serie di Valerio de Filippis, presentata interamente per la prima volta, si ritrova la stessa fresca coscienza per cui è molto più sconveniente ergersi a censori che prendere con consapevole leggerezza ogni aspetto della vita umana, compreso l’erotismo. La serie presentata in questa occasione si compone di opere su tavola di piccole e medie dimensioni che hanno per soggetto, appunto, varie scene di vita erotica, intendendo il senso letterale di “erotismo”: nulla di fisico o particolarmente esplicito, piuttosto un intimo gioco delle parti, talvolta sofisticato, in cui si allude, ma non si esplicita, il vitale piacere della libertà da schemi sociali precostituiti. Tutto, dunque, diventa ironico e persino innocente per chi, in fondo, vive secondo il motto terenziano per cui “homo sum, humani nihil a me alienum puto”.
Cecilia Paolini
Roma, 2011
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Le velate pulsioni
di Lisa Simonetti
Fantasie erotiche, passioni recondite e desideri più arditi si celano nell’animo umano di ogni essere umano che il più delle volte tende a offuscare i propri sensi, in relazione a meccanismi inconsci fin troppo benpensanti e falsamente ipocriti.
HONY SOIT QUI MAL Y PENSE, si vergogni chi pensa male di qualunque inclinazione umana. Mai affermazione, risalente ai Cavalieri dell’Ordine della Giarrettiera del Regno Unito, può essere più interpretativa di questa per racchiudere il senso della serie di opere che accompagnano l’esposizione di Valerio de Filippis.
L’oggetto erotico e la continua ricerca del piacere si fondono in una sorta di epos noir tinto da fosche atmosfere che allo stesso tempo vengono patinate da guizzi di lucidità improvvisa.
Visto il successo della prima esposizione e la ricorrente epifania di un tema che contrassegna in maniera a dir poco atavica la società attuale, si ripropone in mostra il nucleo originario della serie, unito a dipinti frutto del lavoro dell’ultimo anno.
Riflessioni che portano Valerio de Filippis a rappresentare il vero significato dell’eros attraverso forme e immagini che non hanno un chiaro riferimento esplicito, piuttosto giocano all’interno della loro intimità rendendo implicite sensazioni di piacere, svuotate da ogni genere di schema morale prestabilito.
L’esposizione, quindi, si compone di opere su tavola di diversa tecnica e formato, aventi come comune denominatore “l’erotismo”. Un erotismo dal sapore letterario, in cui la presenza rivelante di un vissuto emotivo, seppur inconscio, innalza intellettualmente questa ricerca del piacere e del desiderio tanto bramata quanto taciuta dall’animo umano.
Lisa Simonetti
Roma, 2012
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Il manifesto libertino di Valerio de Filippis
di Cecilia Paolini
Se non per incanto, almeno per gioco… questo è il primo pensiero alla serie di de Filippis che impone la leggerezza come fondamentale requisito per essere compresa e non fraintesa.
“HONY SOIT QUI MAL Y PENSE”: un inno a considerare ogni inclinazione umana come lecita, perché in fondo prodotto di una naturale tendenza, ma anche un modo per schernirsi dietro un modo di essere che si presuppone fuori dal comune. La logica delle “scene” presentate da de Filippis è di un mondo che vuol essere scoperto, ma come se fosse una lontana e inavvicinabile esibizione, come in un teatro la cui platea è aperta a tutti (anzi, dalla platea si pretendono comprensione e plauso) ma il palcoscenico è riservato soltanto ad attori di navigato mestiere.
Non vi è nulla di empatico, in fondo nulla che potremmo definire davvero reale, tanto che davanti a queste tavole lo spettatore è indotto a credersi un voyeur; ma è un gioco delle parti del quale solo fintamente siamo osservatori non invitati. D’altra parte l’ammonizione a non pensare male non sussisterebbe se non si presupponesse non solo di essere al di fuori dei comuni comportamenti sociali, ma che tale stravaganza sia ormai manifesta: è un mondo che per sopravvivere ha bisogno di spettatori, consapevoli del fatto che non potranno mai trasformarsi in attori.
Tutto è finzione, tutto è gioco: ma chi si fregia di un manifesto così libertino, eppur formalmente raffinato, può ben attestarsi nel limbo che separa la realtà da quel mondo: fa parte dell’élite che, al di là delle convenzioni, vive con spensierata consapevolezza la dimensione altra e irreale del mascheramento. La collezione proposta in questo catalogo è un divertissement per intenditori, una serie di opere su tavola di piccole e medie dimensioni caratterizzate da una pittura minuziosa che descrive atmosfere di elitaria eleganza.
Cecilia Paolini
Roma, 2012
Artista che esegue opere su commissione riguardanti la ritrattistica e le opere personalizzate.